Famiglia dove sei???

Famiglia dove sei???
Quando non divulghi le colpe dei fratelli, quando perdoni senza indagare nel passato, quando non condanni, ma intercedi nell'intimo, il silenzio è misericordia.

lunedì 5 dicembre 2011

Lettera di preparazione al natale

AVVENTO



"Perché si festeggia il Natale all'inizio dell'inverno?" La risposta si trova nel Libro della Natura. Ogni vita comincia da un seme: un seme sepolto nell'oscurità della terra o nel ventre di una donna. L'inverno è la stagione in cui, nelle sementi messe nella terra, si fa un lungo lavoro di germinazione che terminerà in primavera, allo sbocciare di una moltitudine di esistenze nuove. Un lavoro identico si compie nella psiche di ogni essere: in quella terra nera che è la natura inferiore, il seme del Sé divino, il Cristo, deve cominciare a germogliare. La notte di Natale, i cristiani celebrano questo avvenimento. Sì, proprio di notte, a mezzanotte, nel momento della più grande oscurità ha luogo una nascita. Ecco perché, malgrado il freddo e l'oscurità, Natale è anche la festa della luce."
                  

Il tempo della speranza
Il tempo dell’avvento apre l’anno liturgico e ci ricorda un aspetto fondamentale della nostra fede e che troppo spesso viene dato per scontato:  la presenza di Dio nella storia, una presenza che è costante, continuativa e tangibile. Nato come tempo di preparazione all’incontro definitivo con il Cristo che verrà nella  parusia alla fine dei tempi (seconda venuta), in un secondo momento diventato celebrazione del Natale e ricordo della venuta storica del Figlio nella carne (prima venuta), si è  infine  configurato come il tempo della celebrazione della  venuta quotidiana di Gesù nella vita dell’uomo (venuta intermedia). Il tempo dell’avvento rappresenta così più un dato strutturale che occasionale della fede dell’uomo e disegna le  coordinate essenziali del rapporto dell’uomo con Dio, un rapporto fatto di speranza, attesa e vigilanza, poiché Dio visita il suo popolo e si preoccupa in mille modi di dare segnali inequivocabili della sua presenza. In questo senso siamo invitati a rivedere il nostro vocabolario interiore per considerare come il nostro Dio non sia tanto “un Dio che ritorna”, quasi si fosse allontanato momentaneamente e dopo un periodo di assenza facesse ritorno, quanto piuttosto un Dio che sta alla porta del nostro cuore e bussa, attendendo che apriamo la porta per venire e cenare con noi (Ap 3, 20). La venuta continua di Dio nella nostra vita è il fondamento della nostra speranza e tuttavia noi viviamo un rapporto strano con la speranza, spesso  infatti  ci rifugiamo  in quei due estremi che  in realtà  ci allontanano dalla speranza: la presunzione che ci fa sentire autosufficienti (specie quando le cose ci vanno bene e siamo portati a dimenticarci di Dio) e la  disperazione che ci getta nello sconforto e nella depressione (specie quando siamo provati e veniamo a contatto con la precarietà della nostra condizione umana). Eppure noi non possiamo fare ameno della speranza, che rappresenta come  l’ossigeno della nostra interiorità, al punto che potremmo stabilire non solo che “finché c’è vita c’è speranza”, ma anche che finché c’è speranza c’è vita, giacché una vita senza speranza forse non può nemmeno essere considerata vita. Siamo grati allora alla liturgia che ci permette di vivere in questo periodo dell’anno uno degli aspetti più importanti della nostra fede e che si configura per noi come la possibilità di riaccendere la capacità di desiderare e di appassionarci, dal momento che il vero motore del nostro cuore non è tanto la forza di volontà, che rimane sempre una parte importante, quanto piuttosto il  desiderio, quell’energia che ci rende capaci di tirare fuori le nostre energie migliori e spesso sepolte, e condurci alla dimensione della gratuità, della celebrazione, della lode.
Vivere l’oggi Credo sia importante che lo svolgimento delle nostre riflessioni segua le indicazioni che ci vengono direttamente dalla Sacra Scrittura, è sempre infatti la via più semplice e più sicura, capace di introdurci nel mistero e di scaldare il cuore, riaccendendo in noi il desiderio di seguire Gesù a partire dal nostro battesimo, nella via dei consigli evangelici e della nostra spiritualità, facendo rivivere così in noi la grazia delle origini.
Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua collera, consumiamo i nostri anni come un soffio. Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via.
Chi conosce l’impeto della tua ira e, nel timore di te, la tua collera? Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio. (Sal 89, 9-12).
Tutte le volte che nella Bibbia ci imbattiamo in un racconto apocalittico, nel linguaggio escatologico o in una riflessione sapienziale sulla morte e sulle cose ultime, ci troviamo in realtà di fronte ad una provocazione sulla nostra condotta e ad un giudizio sul nostro oggi. Da sempre la pedagogia biblica ha intuito l’importanza di scuotere la coscienza dei credenti con scenari dal forte impatto emotivo, allo scopo di farli riflettere sulla direzione che stava prendendo la loro vita e di costringerli a fare un più accurato discernimento per il futuro prossimo. Allo stesso modo le  parabole del giudizio non hanno come obiettivo la descrizione dell’inferno e dell’aldilà, tantomeno un certo terrorismo religioso che dovrebbe suscitare una conversione; ma sono piuttosto una provocazione a fare discernimento, perché non accada all’uomo di sprecare l’unica vita che gli è data. In altri termini tutte le volte che compare il futuro nella Parola di Dio, questo ha sempre un fortissimo rapporto con il presente, al quale è intrinsecamente intrecciato e dal quale dipende in modo diretto. In tutte le parabole del giudizio, infatti, ci si riferisce alla fine, quella realtà che consegna alla storia l’eredità di ciò che siamo stati e non siamo stati, di ciò che abbiamo fatto e che non abbiamo fatto, esponendoci a quel giudizio che è in grado di pesare la qualità del nostro cuore in modo definitivo ed oggettivo, visto che la libertà di cui siamo provvisti  non ha più  il  potere di imprimere una direzione al nostro agire. Possiamo contare almeno una quindicina di  parabole della fine e diventano 17 se consideriamo anche alcune espressioni forti che Gesù ha utilizzato nei suoi dialoghi con le persone che ha incontrato, ne consegue che l’argomento era di  capitale importanza per Gesù, che non si è risparmiato nel farsi prossimo all’uomo bisognoso di correzione.
* La parabola del portinaio (Mc 13, 33-37).
*Il regolamento amichevole dei conti (Mt 5, 25-26; Lc 12, 58-59).
*Il ladro nella notte (Mt 24, 43-44; Lc 12, 39-40).
* L’economo fedele e malvagio (Mt 24, 45-51; Lc 12, 42-46).
* La parabola dei talenti (Mt 25, 14-30; Lc 19, 12-27).
* La parabola della rete (Mt 13, 47-50).
* Il debitore spietato (Mt 18, 23-25).
* La parabola delle dieci vergini (Mt 25, 1-13).
* La separazione delle pecore e dei capri (Mt 25, 32-46).
* Il ricco stolto (Lc 12, 16-21).
* I servi vigilanti (Lc 12, 35-38).
* La parabola del fico sterile (Lc 13, 6-9).
* La parabola della porta chiusa (Lc 13, 24-30).
* La parabola del fattore infedele (Lc 16, 1-8).
* Il povero Lazzaro ed il ricco epulone (Lc 16, 19-31).
* Il grande banchetto (Mt 22, 1-10).
* Il paragone di Noé e Lot (Lc 17, 26-37).
In tutti questi racconti emerge il consiglio evangelico di diventare saggi, che potrebbe in qualche modo diventare l’aspetto su cui vigilare in questo tempo di avvento, una saggezza che viene dal contatto più riconciliato con la nostra condizione di creature: “riconoscano le genti di essere mortali” (Sal 9, 21). Ognuno di noi è invitato ad imparare a contare i propri giorni per giungere alla sapienza del cuore, per dirla in termini paolini a divenire più sobrio ed essenziale “passa infatti la figura di questo mondo”. (1 Cor 7, 31).
La vigilanza cristiana
Il tema fondamentale di queste parabole  e di questo tempo di avvento  può essere sintetizzato nella vigilanza, quella sobrietà e quella presenza a se stessi che ci permette di non vivere in superficialità, ma di andare al nocciolo delle cose, alla realtà fondamentale che spesso viene messa da parte e dimenticata perché data per scontata e per acquisita una volta per tutte con la professione dei consigli evangelici. Emerge la  serietà del giudizio che porta Gesù e che è già all’opera con la sua presenza, una serietà che non rivela solo la realtà di Dio (la sua  misericordia), ma anche  la  realtà  dell’uomo (la sua  libertà). La necessità di vivere  pienamente  nel presente si fondava nella primitiva comunità cristiana proprio nella consapevolezza che Gesù, poiché risorto, sarebbe  “tornato” e con il suo ritorno avrebbe portato alla luce il segreto che c’è nel cuore di ognuno; da qui l’esigenza di vivere nell’amore e nel bene per non essere trovati mancanti. Poiché il ritorno del Signore tardava la comunità ha iniziato a riflettere sulla venuta del Signore nella storia, un fatto che accompagna lo svolgimento dei giorni non solo in modo puntuale ed eccezionale ma in modo permanente. L’uomo ha iniziato così a capire che il mondo andava abitato, trasformato, evangelizzato, cambiato, e questo ha come allontanato da lui il senso di provvisorietà e di precarietà e ha aumentato il desiderio del benessere e il senso di abitare questo mondo il più a lungo possibile e con il maggiore numero di benefici.
Dopo 2000 anni di cristianesimo noi abbiamo perso il senso dell’attesa  vigilante  e abbiamo iniziato paradossalmente a vivere nel presente dimenticandoci del futuro, abbiamo iniziato ad abitare nella storia finendo per preoccuparci così tanto delle cose quotidiane da mettere in secondo piano quelle eterne:
«Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.». (Col 3, 1-4).
Il  cortocircuito in cui ci imbattiamo oggi quando si affaccia il periodo dell’avvento e che non ci permette più di cogliere il significato autentico di questo tempo liturgico è dato dal fatto che è cambiato il modo di vivere il presente. Se nella cultura biblica il presente era il modo di preparare il futuro, nella nostra cultura il presente viene vissuto con due semplici principi: vivere la giornata e gestire le emergenze, anche nella nostra vita di fede e nella gestione dei compiti pastorali. Tutto ciò che richiede un lungo termine viene vissuto con un certo fastidio e il presente viene come isolato da entrambe i lati, dal passato e dal futuro, e quindi viene separato dalla storia, al punto che qualcuno ha definito la cultura post-moderna il tempo del presente continuo.
Le parabole della fine, proprio per questo motivo, ci invitano a riscoprire  la necessità delle opere per entrare nel regno, ci spingono a rivedere la nostra capacità di amare e si tramutano sempre in una  parenesi morale grazie alla quale siamo richiamati a ciò che è fondamentale, il modo di vivere la nostra unica vita. È significativo ricordare che l’uditorio di Gesù era al quanto sbadato, perso nel quotidiano, sommerso dalla realtà più che immerso in essa, nulla di nuovo sotto il sole. Spesso poi era costituito da persone che spadroneggiavano sul prossimo, degli  approfittatori che credevano di non  dovere  rendere conto  del loro operato e che quindi andavano scossi, perché avevano bisogno di essere responsabilizzate e soprattutto attendevano che qualcuno le facesse passare dal piano delle cose e dei problemi a quello del senso e del significato della vita. Gesù ha ben chiaro dentro di sé il primato di Dio su tutto e su tutti e vede nel Padre il bene supremo dell’uomo, per questo lo annuncia rivelando loro la durezza del loro cuore. Furono soprattutto i Padri orientali che iniziarono a leggere le parabole del giudizio vedendo nella  vigilanza interiore e nella  custodia del cuore il messaggio e la provocazione urgente per la vita spirituale del cristiano, e proposero la necessità di vegliare sui propri sentimenti e sulle proprie  fantasie come medicina preventiva contro  i due peccati contro la speranza: la presunzione che genera superficialità da una parte e la disperazione che produce moralismo dall’altra. Così anche noi siamo invitati in questo tempo di avvento a centrarci, concentrarci e decentrarci su ciò che è eterno, per entrare nella spiritualità autentica, calibrando il nostro lavoro, le nostre energie e il nostro cuore su ciò che non passa, diventando saggi e quindi più capaci di vivere bene il nostro oggi.
La parabola delle dieci vergini (Mt 25, 1-13)
«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono.A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”.  Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”. Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora.».
La parabola delle dieci vergini è forse uno degli  esempi più eloquenti di invito alla vigilanza cristiana come custodia del cuore e traduzione nelle opere buone della propria fede, un prezioso vademecum per il tempo di avvento. La parabola è costruita sul  contrasto tra due gruppi di fanciulle invitate ad un corteo nuziale e non sfugge anche ad un lettore poco esperto la presenza di tratti inverosimili e contraddittori all’interno del testo.
Sembra che Gesù non sia tanto preoccupato della logica interna del racconto, quanto piuttosto della logica che si snoda più in profondità  sul piano del significato. Come è possibile che lo sposo arrivi a mezzanotte? Che senso ha dire alle fanciulle rimaste senza olio di andare a comprarlo in piena notte? Come può uno sposo in un momento così gioioso essere  così duro? E dov’è la sposa, protagonista indiscussa di ogni matrimonio? Domande a cui sarebbe inutile tentare di rispondere, semplicemente  perché  Gesù voleva comunicare qualcosa  di più importante, di  più  serio,  di  più  urgente,  e soprattutto di  severo. La  parabola si comprende meglio se la si accosta a quella immediatamente precedente del maggiordomo fedele nel servizio:
“Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico: lo metterà a capo di tutti i suoi beni” (Mt 24, 46-47). Le due parabole costituiscono infatti come un  dittico dove l’evangelista dipinge due modi sbagliati di vivere in questo tempo: l’atteggiamento di chi calcola il ritardo della venuta del Signore e ne approfitta e l’atteggiamento di chi non è preparato ad attendere a lungo. L’attesa del Signore, il modo cristiano di vivere il tempo presente, chiede infatti di coniugare insieme prontezza e costanza.
La risposta dello sposo alle fanciulle stolte “non vi conosco” ricorda le parole forti di Gesù ai falsi discepoli “Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi  che operate l’iniquità” (Mt 7, 23). Sono falsi discepoli coloro che nel suo nome hanno profetato, cacciato demoni e operato miracoli, omettendo però di fare la sua volontà. L’imprevidenza delle fanciulle stolte consiste allora nel vivere una separazione tra il dire ed il fare, tra la preghiera e la vita: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa’  la volontà del Padre mio che è nei cieli.» (Mt 7, 21). La contrapposizione tra sagge e stolte  poi, richiama alla memoria la parabola dei due costruttori (Mt 7, 24-27): uno che edifica la casa sulla roccia, l’altro sulla sabbia. Saggezza è fondare la propria esistenza  sull’ascolto e la pratica, stoltezza è ascoltare e non fare. In questo contesto diventa significativo il fatto dell’impossibilità di comprare  in extremis l’olio necessario, l’incontro con il Signore va preparato prima, non è cosa che si possa rimediare all’ultimo momento, la furbizia di chi pensa sempre di cavarsela non serve.  Potremmo osservare in conclusione che  il punto di forza  della parabola consiste nella provocazione a non spendere male l’unica vita che ci è data, a vivere bene il presente come luogo della sintesi tra azione e contemplazione, capisaldi che la vicenda di Marta (cultura occidentale?) e Maria (cultura orientale?) ci insegna a non tenere distinti ma piuttosto uniti.
Dalle nostre Costituzioni
La vita di oblazione suscitata nei nostri cuori dall’amore gratuito del Signore
ci rende conformi all’oblazione di colui che, per amore,
è totalmente donato al Padre e totalmente donato agli uomini.
Essa ci induce a ricercare sempre più fedelmente,
con il Signore povero e obbediente,
la volontà del Padre su noi e sul mondo.
Ci rende attenti agli appelli che ci fa giungere
attraverso gli avvenimenti piccoli e grandi,
e nelle attese e realizzazioni umane. (Cst 35)
Lungi dall’estraniarci dagli uomini,
la nostra professione dei consigli evangelici
ci rende maggiormente solidali con la loro vita.
Nel nostro modo di essere e di agire,
con la partecipazione alla costruzione della città terrestre
e all’edificazione del Corpo di Cristo,
dobbiamo testimoniare efficacemente
che il Regno di Dio e la sua giustizia
devono essere cercati prima di tutto
e attraverso tutto (cf. Mt 6,33). (Cst 38) - Mons. Tonino Bello

Comunità
“Apostoli del Signore”




NB La Comunità "Apostoli del Signore" si riunisce per la Preghiera, tutti i Venerdì alle ore 18:30, presso il Santuario "Nostra Signora di Fatima" in Marcianise (Ce)