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mercoledì 30 novembre 2011
sabato 5 novembre 2011
ANNUNCIARE IL VANGELO
ANNUNCIARE IL VANGELO
Annunciare il vangelo è un "servizio" reso alla
comunità cristiana e a tutta l’umanità. Le condizioni della società di oggi ci
obbligano tutti a rivedere i modi e i mezzi per portare all’uomo moderno il
messaggio cristiano.
Soltanto nel vangelo l’uomo può trovare la risposta ai suoi
interrogativi e la forza per il suo impegno di solidarietà umana. Il patrimonio
della fede c’è: si tratta di presentarlo agli uomini del nostro tempo in modo
comprensibile e persuasivo. Il messaggio evangelico è necessario, unico e
insostituibile.
Bisogna tradurlo senza tradirlo, viverlo e proporlo agli
altri senza accomodamenti, annacquamenti e miscugli di vario genere.
Rappresenta la bellezza della rivelazione. Ha in sè una saggezza che non è di
questo mondo. È capace di suscitare la fede che poggia sulla potenza di Dio.
Esso è la verità. Merita che l’apostolo vi consacri tutto il suo tempo, tutte
le sue energie e vi sacrifichi, se è necessario, la propria vita.
Cristo evangelizzatore
"Gesù disse: Bisogna che io annunci il regno di Dio:
per questo sono stato mandato" (Lc 4,43); e applica a se stesso la frase
del profeta Isaia: "Lo Spirito del Signore è sopra di me... e mi ha
mandato per annunziare ai poveri un lieto annunzio (= vangelo)" (cf.Is
61,1; Lc 4, 18).
Gesù passa di città in città per proclamare il vangelo del
regno di Dio: è lui il primo e più grande evangelizzatore di tutti i tempi. Il
regno di Dio annunciato da Gesù è così importante che ogni altra cosa diventa
"il resto" che è "dato in aggiunta".
(cf. Mt 6,33)
Nucleo centrale del vangelo: la salvezza, dono grande di
Dio, liberazione da tutto ciò che opprime l’uomo, liberazione dal peccato e dal
maligno, gioia di conoscere Dio e di essere conosciuti da lui, di vederlo e di
abbandonarsi a lui.
Questo regno e questa salvezza ogni uomo può riceverli come
grazia e misericordia e, nello stesso tempo, deve conquistarli con la forza
(cf. Mt 11,12; Lc 16,16), con la fatica e la sofferenza, con una vita secondo
il vangelo, con la rinuncia e la croce, con lo spirito delle beatitudini, con
la conversione totale della mente e del cuore.
Questa proclamazione del regno di Dio, il Cristo la compie
mediante la predicazione instancabile di una parola che non
trova l’eguale: "dottrina nuova" (Mc 1,27),
"parole di grazia"
(Lc 4,22), "mai un uomo ha parlato come parla
quest’uomo!" (Gv 7,46).
Chiesa evangelizzatrice
Quelli che accolgono l’annuncio del vangelo si riuniscono
nel nome di Gesù per cercare insieme il regno di Dio, costruirlo, viverlo.
L’ordine dato agli Apostoli: "Andate, proclamate il vangelo" vale per
tutti i cristiani. L’annuncio del regno di Dio è per tutti gli uomini di tutti
i tempi. Chi lo ha accolto può e deve comunicarlo e diffonderlo.
Scriveva s. Paolo: "Per me evangelizzare è un dovere.
Guai a me se non predicassi il vangelo!" (1 Cor 9,16). Evangelizzare è la
missione essenziale della chiesa, la grazia e la vocazione propria della
chiesa, la sua identità più profonda.
La chiesa esiste per evangelizzare, per predicare e
insegnare, per essere il canale del dono della grazia, per riconciliare i
peccatori con Dio, per perpetuare il sacrificio del Cristo nella santa messa.
La chiesa è nata dalla predicazione di Gesù e degli apostoli. "Coloro che
accolsero la parola furono battezzati e circa tremila si unirono ad essi... e
il Signore, ogni giorno, aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati"
(At 2, 41.47).
La chiesa evangelizzatrice comincia con l’evangelizzare se
stessa. Ha bisogno di ascoltare continuamente ciò che deve credere, sperare,
amare. Ha bisogno di conversione e di rinnovamento costanti se vuole
evangelizzare il mondo con credibilità.
La chiesa manda gli evangelizzatori a predicare, ma... non a
predicare se stessi, le proprie idee personali, ma il vangelo di cui né essi né
essa sono padroni e proprietari assoluti.
La chiesa e gli evangelizzatori sono servitori del vangelo
per trasmetterlo con estrema fedeltà. Cristo ha dato alla sua chiesa il mandato
(= incarico, missione) di evangelizzare.
Questo mandato non si adempie senza di essa, né, tanto meno,
contro di essa. Qualcuno dice: Io amo Cristo, ma non la chiesa; io ascolto
Cristo, ma non la chiesa; io voglio appartenere a Cristo, ma fuori dalla
chiesa.
È impossibile e assurdo tentare di separare Cristo dalla sua
chiesa. Gesù ha detto: "Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi
disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato" (Lc
10, 16). Paolo ha scritto: "Egli (Cristo) ha amato la Chiesa e ha dato se
stesso per lei" (Ef 5,25). S. Cipriano afferma: "Non può avere Dio
per padre chi non ha la chiesa per madre" (Cipriano, Sull’unità della
chiesa cattolica, 6,8).
Che cosa significa evangelizzare
Evangelizzare è portare il lieto annuncio della salvezza a
tutti gli strati dell’umanità, per trasformarla dal di dentro e renderla nuova.
Ma non c’è umanità nuova se prima non ci sono uomini nuovi.
Questa novità nasce dal battesimo e dalla vita secondo il vangelo. La chiesa
evangelizza in modo vitale, in profondità, fino alle ultime radici, la cultura
e le culture dell’uomo.
Il vangelo è proclamato mediante la testimonianza della
vita. A questa testimonianza tutti i cristiani sono chiamati e possono essere,
sotto questo aspetto, dei veri evangelizzatori.
Questa testimonianza, tuttavia, si rivelerà impotente se non
è illuminata, giustificata e esplicitata da un annuncio chiaro e inequivocabile
del Signore Gesù. La buona novella proclamata dalla testimonianza di vita dovrà
essere, presto o tardi, annunciata dalla parola di vita.
Non c’è vera evangelizzazione se non sono proclamati il
nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il regno, il mistero di Gesù di
Nazaret, figlio di Dio.
La chiesa ha un grande desiderio di evangelizzare. I
problemi che 1’assillano sono: chi inviare ad annunciare il mistero di Gesù?
Che linguaggio usare per farsi capire? Come fare perché l’annuncio arrivi a
tutti quelli che lo devono ascoltare?
L’annuncio deve essere capito, accolto, assimilato. Deve
suscitare l’adesione del cuore alla verità e al programma di vita che esso
propone.
Adesione al regno, cioè al "mondo nuovo", al nuovo
stato di cose, alla nuova maniera di essere, di vivere, di vivere insieme, che
il vangelo inaugura. Una tale adesione non può restare astratta o disincarnata,
ma si rivela concretamente mediante un ingresso visibile nella comunità dei fedeli,
la chiesa, sacramento universale di salvezza.
Chi è stato evangelizzato a sua volta evangelizza. Qui è la
prova della verità. È impensabile che un uomo abbia accolto la parola e si sia
dato al regno di Dio senza diventare a sua volta testimone e annunciatore della
parola e del regno.
In sintesi. Evangelizzare è:
rinnovamento dell’umanità,
testimonianza di vita,
annuncio esplicito,
adesione del cuore,
ingresso nella comunità,
accoglimento dei sacramenti,
iniziative di apostolato.
Questi elementi non sono in contrasto tra di loro, ma sono
complementari e si arricchiscono a vicenda.
Contenuto dell’evangelizzazione
Evangelizzare è testimoniare Dio rivelato da Gesù Cristo
nello Spirito Santo. Testimoniare che, nel suo Figlio, Dio ha amato il mondo,
ha dato l’esistenza a tutte le cose e ha chiamato gli uomini alla vita eterna.
Per l’uomo, il creatore non è una parola anonima e lontana: è il Padre.
"Siamo chiamati figli di Dio e lo siamo realmente" (1 Gv 3,1).
E siamo fratelli gli uni gli altri in Dio. In Gesù Cristo,
Figlio di Dio fatto uomo, morto e risuscitato, la salvezza è offerta ad ogni
uomo come dono di grazia e misericordia di Dio stesso. Questa salvezza
oltrepassa tutti i limiti della vita presente e si realizza in Dio, ha inizio
in questa vita, ma si compie nell’eternità. Il nucleo del vangelo è:
proclamazione dell’amore di Dio verso di noi e del nostro amore verso di lui,
predicazione dell’amore fraterno per tutti gli uomini, capacità di dono, di
perdono, di abnegazione e di aiuto ai fratelli, predicazione del mistero del
male e della ricerca attiva del bene, predicazione della ricerca di Dio
attraverso la preghiera e i sacramenti, segni del Cristo vivente e operante
nella chiesa.
L’incontro con Cristo nei sacramenti è il completamento
naturale, il punto di arrivo dell’evangelizzazione. Evangelizzare è impiantare
la chiesa. La chiesa non esiste senza la vita sacramentale culminante
nell’eucaristia.
Il vangelo coinvolge la vita concreta, personale e sociale
dell’uomo. L’evangelizzazione è un messaggio esplicito, costantemente
aggiornato e applicato, sui diritti e sui doveri di ogni persona umana, sulla
vita familiare, sulla vita comune nella società, sulla vita internazionale, la
pace, la giustizia, lo sviluppo, la liberazione.
Fa parte dell’evangelizzazione annunziare la liberazione di
milioni di esseri umani da carestie, analfabetismo, pauperismo, ingiustizia nei
rapporti internazionali (specialmente negli scambi commerciali), da situazioni
di neo-colonialismo economico e culturale talvolta crudele quanto l’antico
colonialismo politico. Tra evangelizzazione e promozione umana ci sono legami
profondi. L’uomo da evangelizzare non è un essere astratto, ma condizionato da
questioni sociali e economiche.
Non si può dissociare il piano della creazione da quello
della redenzione. Non si può proclamare il comandamento nuovo (amore verso il
prossimo) senza promuovere l’autentica crescita dell’uomo nella giustizia e
nella pace vera. Sarebbe dimenticare la lezione che ci viene dal vangelo
sull’amore del prossimo sofferente e bisognoso.
Tuttavia bisogna affermare chiaramente la finalità
specificamente religiosa dell’evangelizzazione: il regno di Dio prima di ogni
altra cosa. La liberazione annunciata dall’evangelizzazione non può
limitarsi alla semplice dimensione economica, politica, sociale e culturale, ma
deve mirare all’uomo tutto intero in ogni sua dimensione, compresa la sua
apertura verso l’assoluto di Dio.
La chiesa non circoscrive la sua missione al solo campo
religioso, disinteressandosi dei problemi dell’uomo, ma afferma il primato
della sua vocazione spirituale. Il suo contributo alla liberazione è incompleto
se trascura di annunciare la salvezza in Cristo. La chiesa collega ma non
identifica mai liberazione umana e salvezza in Cristo; sa che non basta
instaurare la liberazione, cercare il benessere e lo sviluppo, perché venga il
regno di Dio.
La chiesa ritiene importante e urgente edificare strutture
più umane, più giuste, più rispettose dei diritti della persona, meno
oppressive e meno coercitive, ma sa anche che le migliori strutture, i sistemi
meglio idealizzati diventano presto inumani se le inclinazioni inumane del
cuore dell’uomo non vengono risanate, se non c’è una conversione del cuore e
della mente di coloro che vivono in queste strutture e le dominano.
La chiesa non può accettare la violenza, la forza delle armi
né la morte di nessuno come cammino di liberazione, perché sa che la violenza
chiama sempre violenza e genera irresistibilmente nuove forme di oppressione e
di schiavitù più pesanti di quelle dalle quali essa pretendeva liberare.
"Vi esortiamo a non mettere la vostra fiducia nella
violenza né nella rivoluzione; tale atteggiamento è contrario allo spirito
cristiano e può anche ritardare e non favorire l’elevazione sociale alla quale
legittimamente aspirate"; "dobbiamo dire e riaffermare che la
violenza non è né cristiana né evangelica e che i mutamenti bruschi o violenti
delle strutture sarebbero fallaci e inefficaci in se stessi e certamente non
conformi alla dignità del popolo" (Paolo VI; 22-23 agosto 1968).
La chiesa cosa fa in concreto? Suscita numerosi cristiani
che si dedichino alla liberazione degli altri; offre loro una ispirazione di
fede, una motivazione di amore fraterno, un insegnamento sociale da tradurre
sapientemente in azione, partecipazione e impegno.
La chiesa si sforza di inserire sempre la lotta cristiana
per la liberazione nel disegno globale della salvezza che essa annuncia:
liberazione che Cristo ha donato all’uomo mediante il suo sacrificio.
La libertà religiosa occupa un posto di primaria importanza
tra i diritti fondamentali dell’uomo.
Le vie dell’evangelizzazione
Occorre ricercare con audacia e saggezza i modi più adatti e
più efficaci per comunicare il vangelo agli uomini del nostro tempo. Primo
mezzo di evangelizzazione: testimonianza di vita autenticamente cristiana.
L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri. Se
ascolta i maestri lo fa perché sono testimoni.
La chiesa evangelizza con la sua testimonianza di santità
vissuta. Non sottovalutiamo tuttavia l’importanza e la necessità della
predicazione.
La fede dipende dalla predicazione della parola di Dio: la
predicazione è sempre indispensabile.
La stanchezza che provocano ai nostri giorni tanti discorsi
vuoti non deve far diminuire la forza della parola né far perdere la fiducia in
essa.
La parola resta sempre attuale, soprattutto quando è
portatrice della potenza di Dio (Cf. 1 Cor 2,1-5). Per questo resta ancora
attuale la frase di s. Paolo: "La fede dipende dalla predicazione"
(Rm 10,17). La parola ascoltata porta alla fede.
L’omelia è strumento valido e adattissimo di
evangelizzazione purché esprima la fede profonda di chi predica e sia
impregnata d’amore. L’omelia deve essere: semplice, chiara, diretta, adatta,
profondamente radicata nell’insegnamento evangelico e fedele all’insegnamento
della chiesa, animata da ardore apostolico, piena di speranza, nutriente per la
fede, generatrice di pace e di unità.
L’insegnamento catechetico e l’insegnamento religioso
sistematico non devono rimanere solo a livello intellettuale, ma devono formare
abitudini di vita cristiana.
Bisogna preparare buoni catechisti preoccupati di
perfezionarsi in questa arte superiore. Le condizioni attuali rendono sempre
più urgente l’insegnamento catechetico sotto forma di catecumenato per numerosi
giovani e adulti che, toccati dalla grazia, scoprono a poco a poco il volto di
Cristo e provano il bisogno di donarsi a lui.
L’evangelizzazione non può fare a meno dei mezzi di
comunicazione sociale: servendosi di essi, la chiesa "predica sui
tetti" (cf. Mt 10, 26) e riesce a parlare alle moltitudini.
La trasmissione del vangelo da persona a persona mantiene
sempre la sua validità e importanza (cf. conversazioni di Gesù con Nicodemo,
Zaccheo, la samaritana...).
Attraverso il sacramento della penitenza, il dialogo
personale, la direzione spirituale, i sacerdoti guidano le persone nelle vie
del vangelo. L’evangelizzazione manifesta tutta la sua ricchezza quando crea un
rapporto intimo tra parola di Dio e sacramenti. Tra evangelizzazione e
sacramenti non c’è contrapposizione.
Il compito dell’evangelizzazione è precisamente quello di
educare alla fede in modo che essa conduca il cristiano a vivere i sacramenti
come veri sacramenti della fede e non a riceverli passivamente senza capirne il
significato, privandoli così in gran parte, della loro efficacia.
La pietà popolare è ricca di valori, ma ha certamente dei
limiti. Resta spesso a livello di manifestazione di culto senza impegnare a una
autentica adesione di fede.
Ben orientata, può essere un vero incontro con Dio in Gesù
Cristo per le masse popolari. Essa manifesta una sete di Dio che solo i
semplici e i poveri possono conoscere.
Destinatari dell’evangelizzazione
Le ultime parole di Gesù nel vangelo di Marco: "Andate
in tutto il mondo a predicare il vangelo ad ogni creatura" (Mc 16,15)
conferiscono alla evangelizzazione una universalità senza frontiere.
I primi cristiani hanno ben compreso la lezione di questo
testo e di altri simili e ne hanno fatto un programma di azione.
La stessa persecuzione (cf. At 8,1) ha contribuito a disseminare
la Parola e a far impiantare la chiesa in regioni più lontane.
Oggi l’opera evangelizzatrice della chiesa è fortemente
contrastata e impedita dai poteri pubblici. Annunciatori della
parola di Dio sono privati dei loro diritti, perseguitati, minacciati,
eliminati per il solo fatto di predicare Gesù Cristo e il suo vangelo.
Nonostante tali avversità, la chiesa ravviva la sua ispirazione più profonda
che le viene direttamente dal Maestro: A tutto il mondo! A tutte le creature!
Fino agli estremi confini della terra!
Fin dal mattino della Pentecoste il programma fondamentale
della chiesa è stato questo: rivelare Gesù Cristo e il suo vangelo a quelli che
non li conoscono.
A causa di situazioni di scristianizzazione frequenti ai
nostri giorni questo primo annuncio (Kerygma) si dimostra sempre più necessario
per moltitudini di persone che hanno ricevuto il battesimo ma vivono
completamente al di fuori della vita cristiana, per gente semplice che ha una
certa fede ma ne conosce male i fondamenti, per intellettuali che sentono il
bisogno di conoscere Gesù in una luce diversa dall’insegnamento ricevuto nello
loro infanzia, e per molti altri.
Le religioni non cristiane portano in sé l’eco di millenni
di ricerca di Dio. Posseggono un patrimonio impressionante di testi
profondamente religiosi. Hanno insegnato a generazioni di persone a pregare.
Sono ricche di "germi del Verbo" e possono essere un’autentica
preparazione al vangelo.
L’incontro dei missionari di oggi e di domani con le
religioni non cristiane suscita questioni complesse e delicate. Tuttavia, né il
rispetto e la stima verso queste religioni, né la complessità dei problemi
sollevati, sono per la chiesa un invito a tacere l’annuncio di Cristo di fronte
ai non cristiani.
Al contrario la chiesa pensa che queste moltitudini hanno il
diritto di conoscere la ricchezza del mistero di Cristo (cf. Ef 3,8) nella
quale tutta l’umanità può trovare tutto ciò che essa cerca a tentoni su Dio,
sull’uomo e sul suo destino, sulla vita e sulla morte, sulla verità.
La religione di Gesù mette oggettivamente l’uomo in rapporto
con Dio. La nostra religione instaura effettivamente con Dio un rapporto
autentico e vivente che le altre religioni non riescono a stabilire. Per questo
la chiesa mantiene vivo lo slancio missionario e vuole intensificarlo nel
nostro momento storico. Si sente responsabile di fronte a popoli interi. Lo
slancio apostolico non è esaurito, l’epoca delle missioni non è tramontata.
L’annuncio missionario non si inaridisce. La chiesa sarà sempre tesa verso il
suo adempimento.
La chiesa non si sente dispensata da una attenzione
altrettanto infaticabile nei confronti di coloro che hanno ricevuto la fede e
che da generazioni sono a contatto con il vangelo. Essa cerca di approfondire,
consolidare, nutrire, rendere sempre più matura la fede di coloro che si dicono
già fedeli e credenti, perché lo siano maggiormente.
Questa fede è oggi posta a confronto con il secolarismo e
l’ateismo, esposta a prove e minacciata, assediata e combattuta. Essa rischia
di perire per asfissia o per inedia se non è continuamente animata e sostenuta.
Nel mondo moderno aumenta la non credenza e il secolarismo.
Il secolarismo è una concezione del mondo nella quale questo si spiega da sé
senza che ci sia bisogno di ricorrere a Dio, divenuto in tal modo superfluo e
ingombrante. Per riconoscere il potere dell’uomo si finisce col fare a meno di Dio
e anche col negarlo. Nuove forme di ateismo - ateismo antropocentrico, non più
astratto o metafisico ma pragmatico, programmatico e militante sembrano
derivarne. In connessione con questo secolarismo ateo, ci vengono proposti
tutti i giorni, sotto le forme più svariate, la civiltà dei consumi, l’edonismo
elevato a valore supremo, la volontà di potere e di dominio, discriminazioni di
ogni tipo: altrettante inclinazioni inumane di questo umanesimo. In questo
mondo moderno non si può negare l’esistenza di vari addentellati cristiani, di
valori evangelici, per lo meno sotto forma di vuoto o di nostalgia. Non sarebbe
esagerato parlare di una possente e tragica invocazione ad essere
evangelizzato.
I non praticanti (un gran numero di battezzati) non hanno
rinnegato formalmente il loro battesimo ma ne sono completamente al margine e
non lo vivono. Il fenomeno dei non praticanti è molto antico nella storia del
cristianesimo, è legato ad una debolezza naturale, ad una profonda incoerenza
che, purtroppo, ci portiamo dentro. Esso presenta oggi delle caratteristiche
nuove. Si spiega mediante gli sradicamenti tipici della nostra epoca e nasce
dal fatto che i cristiani vivono a fianco dei non credenti e ne ricevono i
contraccolpi della non credenza. I non praticanti contemporanei cercano di
spiegare e giustificare la loro posizione in nome di una religione interiore,
dell’autonomia e dell’autenticità personali. Atei e non credenti da una parte,
non praticanti dall’altra, oppongono all’evangelizzazione resistenze non trascurabili.
Atei e non credenti oppongono la resistenza di un certo
rifiuto, l’incapacità di cogliere il nuovo ordine delle cose, il nuovo senso
del mondo, della vita, della storia che non è possibile se non si parte
dall’assoluto di Dio.
I non praticanti oppongono la resistenza dell’inerzia,
l’atteggiamento un po’ ostile di qualcuno che si sente di casa, che afferma di
sapere tutto, di aver gustato tutto, di non credere più. Secolarismo ateo e
assenza di pratica religiosa si trovano presso gli adulti e presso i giovani,
presso l’élite e nelle masse, in tutti i settori culturali, nelle antiche come
nelle giovani chiese.
L’azione evangelizzatrice della chiesa non può ignorare
questi due mondi né arrestarsi davanti ad essi, deve cercare costantemente i
mezzi e il linguaggio adeguati per proporre o riproporre loro la rivelazione di
Dio e la fede in Gesù Cristo.
La chiesa vede davanti a sé un’immensa folla umana che ha
bisogno del vangelo e vi ha diritto perché Dio "vuole che tutti gli uomini
siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità" (1 Tm 2,4). Sa di
avere il dovere di predicare la salvezza a tutti. Sa che il messaggio
evangelico non è riservato a un piccolo gruppo di eletti, ma è destinato a
tutti. La chiesa fa propria l’angoscia di Cristo di fronte alle folle sbandate
e sfinite "come pecore senza pastore" e ripete spesso la sua parola:
"Sento compassione di questa folla" (Mt 9,36;15,32).
La chiesa è cosciente che per l’efficacia della predicazione
evangelica nel cuore delle masse deve indirizzare il suo messaggio a comunità
di fedeli la cui azione può e deve giungere agli altri. Queste comunità di
fedeli o "comunità ecclesiali di base" (movimenti, gruppi
spontanei...) saranno un luogo di evangelizzazione e una speranza per la chiesa
universale nella misura in cui: cercano il loro alimento nella parola di Dio e
non si lasciano imprigionare dalle ideologie di moda; evitano la contestazione
sistematica e lo spirito ipercritico; restano fedelmente attaccate alla chiesa
locale e universale, evitando così il pericolo di isolarsi in se stesse, di
credersi l’unica chiesa di Cristo; conservano una sincera comunione con i
pastori che il Signore dà alla sua chiesa e col magistero che lo Spirito di
Cristo ha loro affidato; non si considerano l’unico destinatario o l’unico
artefice di evangelizzazione o l’unico depositario del vangelo, ma, consapevoli
che la chiesa è molto più vasta e diversificata, accettano che questa chiesa si
incarni anche in modi diversi da quelli che avvengono in esse; crescono ogni
giorno in consapevolezza, zelo, impegno e irradiazione missionari; si mostrano
universalistiche e non settarie.
A queste condizioni "le comunità ecclesiali di
base" corrisponderanno alla loro fondamentale vocazione: ascoltatrici del
vangelo e destinatarie privilegiate dell’evangelizzazione, diventeranno
annunciatrici del vangelo.
Operai dell’evangelizzazione
Alla chiesa per "mandato divino incombe l’obbligo di
andare nel mondo universo a predicare il vangelo ad ogni creatura" (Conc.
Vat.II). "Tutta la chiesa è missionaria e l’opera evangelizzatrice è un
dovere fondamentale del popolo di Dio" (Conc. Vat. II).
Evangelizzare non è mai stato un atto individuale e isolato,
ma profondamente ecclesiale. Quindi nessun evangelizzatore è padrone assoluto
della propria azione evangelizzatrice, ma deve compierla in comunione con la
chiesa e con i suoi pastori.
Il Signore ha voluto la sua chiesa universale senza confini
e senza frontiere. Il cristiano deve avere piena coscienza di appartenere ad
una grande comunità che né lo spazio né il tempo possono limitare.
Non può quindi limitare i suoi orizzonti al suo gruppo, alla
sua parrocchia, alla sua diocesi: cattolico vuol dire universale.
Il papa e i vescovi hanno il dovere e il diritto, per primi,
di predicare e di far predicare il vangelo della salvezza.
Al papa e ai vescovi sono associati, come responsabili a
titolo speciale, i sacerdoti e i diaconi. Più di qualunque altro membro della
chiesa sono invitati a prendere coscienza di questo dovere!
I religiosi trovano nella loro vita consacrata un mezzo
privilegiato per una evangelizzazione efficace.
Sono testimoni della santità della chiesa. Questa
testimonianza è al primo posto in ordine all’evangelizzazione. Essi hanno dato
e continuano a dare un apporto immenso all’evangelizzazione. Proprio per la
loro consacrazione religiosa, sono volontari e liberi per lasciare tutto e
andare ad annunziare il vangelo fino ai confini del mondo. Sono intraprendenti.
Il loro apostolato è contrassegnato da originalità e
genialità che costringono all’ammirazione. Sono generosi: li si trova spesso
agli avamposti della missione e assumono i più grandi rischi per la loro salute
e per la loro stessa vita.
I laici devono esercitare una forma singolare di
evangelizzazione. Devono mettere in atto tutte le possibilità cristiane e
evangeliche nascoste, ma presenti e operanti nella realtà del mondo.
Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il
mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell’economia,
della cultura, delle scienze e delle arti, della vita internazionale, degli
strumenti di comunicazione sociale, di quelle realtà particolarmente aperte
all’evangelizzazione come l’amore, la famiglia, l’educazione dei bambini e
degli adolescenti, il lavoro professionale, la sofferenza.
Più ci saranno laici penetrati di spirito evangelico,
responsabili di queste realtà e impegnati in esse, competenti nel promuoverle e
consapevoli di dover sviluppare tutta la loro capacità cristiana, spesso tenuta
nascosta e soffocata, tanto più queste realtà si troveranno al servizio della
edificazione del regno di Dio e della salvezza in Gesù Cristo.
La famiglia ha ben meritato durante tutta la storia della
chiesa la bella definizione di "chiesa domestica" (Lumen Gentium 11).
In ogni famiglia cristiana dovrebbero riscontrarsi i diversi aspetti della
chiesa intera.
La famiglia è una realtà nella quale il vangelo viene
trasmesso e da cui il vangelo si irradia. Nell’intimo di una famiglia cosciente di
questa missione, tutti i componenti evangelizzano e sono evangelizzati.
I genitori comunicano il vangelo ai figli e ricevono dai
figli lo stesso vangelo profondamente vissuto. Una simile famiglia diventa
evangelizzatrice di molte altre famiglie e dell’ambiente nel quale è inserita.
Le circostanze ci invitano a rivolgere una attenzione tutta
speciale ai giovani. Il loro aumento numerico, la loro presenza crescente nella
società, i problemi che li assillano devono risvegliare in tutti la
preoccupazione di offrire loro, con zelo e con intelligenza, 1’ideale
evangelico da conoscere e da vivere.
Occorre che i giovani, ben formati nella fede e nella
preghiera diventino sempre più gli apostoli della gioventù. La chiesa fa molto
affidamento su di loro e manifesta fiducia verso di essi. La presenza attiva
dei laici nelle realtà del mondo è importante, ma non bisogna dimenticare
l’altra dimensione: i laici possono sentirsi chiamati o essere chiamati a
collaborare con i pastori nel servizio della comunità ecclesiale esercitando
ministeri diversissimi.
Accanto ai ministri ordinati (vescovi, preti, diaconi, che
hanno ricevuto il sacramento dell’ordine) la chiesa riconosce il ruolo di
ministri non ordinati, per esempio quelli di catechista, di animatori della
preghiera e del canto, di servizio alla parola di Dio, di assistenza ai
fratelli bisognosi, di capi di piccole comunità, di responsabili di movimenti
apostolici...
La chiesa ha in particolare stima tutti i laici che
accettano di consacrare una parte del loro tempo, delle loro energie e,
talvolta, la loro vita intera, al servizio delle missioni.
Per tutti gli operai della evangelizzazione è necessaria una
seria preparazione, soprattutto per coloro che si dedicano al ministero della
parola. L’arte di parlare ha una grandissima importanza.
Questa seria preparazione accrescerà la sicurezza
indispensabile, ma anche l’entusiasmo per annunciare Gesù Cristo oggi.
Lo Spirito dell’evangelizzazione
L’evangelizzazione non sarà mai possibile senza l’azione
dello Spirito Santo. Gesù ha iniziato la sua predicazione "con la potenza
dello Spirito" (Lc 4,14).
Soltanto dopo la discesa dello Spirito Santo gli apostoli
partono verso tutte le direzioni del mondo per cominciare la grande opera di
evangelizzazione della chiesa.
Lo Spirito Santo che fa parlare Pietro, Paolo e gli altri
apostoli, discende anche " sopra tutti coloro che ascoltavano il
discorso" (At 10,44). Lo Spirito è l’anima della chiesa.
È lui che oggi come agli inizi della chiesa, opera in ogni
evangelizzatore che si lasci possedere e condurre da lui, che gli suggerisce le
parole che da solo non saprebbe trovare, predisponendo nello stesso tempo
l’animo di chi ascolta perché si apra ad accogliere il vangelo e il regno. Le
tecniche dell’evangelizzazione sono buone, ma non possono sostituire l’azione
dello Spirito.
Anche la preparazione più raffinata dell’evangelizzatore non
opera nulla senza di lui. Noi stiamo vivendo nella chiesa un momento privilegiato
dello Spirito. Si cerca da per tutto di conoscerlo meglio, quale è rivelato
dalle Scritture. Si è felici di mettersi sotto la sua mozione. Ci si raccoglie
attorno a lui e ci si vuol lasciare guidare da lui.
Lo Spirito di Dio ha un posto eminente in tutta la vita
dalla chiesa, ma agisce soprattutto nella missione evangelizzatrice: non a caso
il grande inizio dell’evangelizzazione avvenne il mattino di Pentecoste, sotto
il soffio dello Spirito.
Lo Spirito è l’agente principale dell’evangelizzazione e il
termine dell’evangelizzazione: egli solo suscita la nuova creazione, l’umanità
nuova con quella unità nella varietà che l’evangelizzazione tende a provocare
nella comunità cristiana. Per mezzo di lui il vangelo penetra nel cuore del
mondo. Il ruolo dello Spirito Santo è fondamentale: bisogna studiare meglio la
natura e il modo di agire dello Spirito Santo nell’odierna evangelizzazione.
Gli evangelizzatori preghino incessantemente lo Spirito
Santo con fede e fervore, si lascino prudentemente guidare da lui quale
ispiratore decisivo dei loro programmi e delle loro iniziative, della loro
attività evangelizzatrice.
Consideriamo ora la persona stessa degli evangelizzatori. Si
ripete spesso che il nostro secolo ha sete di autenticità. Dei giovani si dice
che hanno orrore del fittizio, del falso e ricercano la verità e la
trasparenza. Tacitamente o con alte grida, ma sempre con forza ci domandano:
Credete veramente a quello che annunciate? Vivete quello che credete? Predicate
veramente quello che vivete?. La testimonianza della vita è diventata più che
mai una condizione essenziale per l’efficacia profonda della predicazione.
Bisogna che il nostro zelo per l’evangelizzazione scaturisca
da una vera santità di vita e che la predicazione, alimentata dalla preghiera e
dall’amore all’eucaristia, faccia crescere in santità colui che predica.
Il mondo reclama evangelizzatori che gli parlino di un Dio
che essi conoscono, che è loro familiare, come se vedessero l’invisibile (cf.
Eb 11,27). Il mondo esige e aspetta da noi semplicità di vita, spirito di
preghiera, carità verso tutti specialmente verso i piccoli e i poveri,
ubbidienza e umiltà, distacco da noi stessi e rinuncia. Senza questo
contrassegno della santità, la nostra parola difficilmente si aprirà la strada
nel cuore dell’uomo del nostro tempo, ma rischia di essere vana e infeconda.
La forza dell’evangelizzazione risulterà molto diminuita se
coloro che annunziano il vangelo sono divisi tra di loro da tante specie di
rottura. Questo è uno dei grandi malesseri dell’evangelizzazione oggi. Se il
vangelo che proclamiamo appare lacerato da discussioni dottrinali, da
polarizzazioni ideologiche e da condanne reciproche tra cristiani in balia
delle loro diverse teorie sul Cristo e sulla chiesa e anche a causa delle loro
diverse concezioni sulla società e le istituzioni umane, come potrebbero coloro
a cui è rivolta la nostra predicazione non sentirsene turbati, disorientati,
scandalizzati? Il testamento spirituale del Signore ci dice che l’unità tra i
suoi seguaci non è soltanto la prova che noi siamo suoi, ma anche che egli è
l’inviato del Padre, criterio di credibilità dei cristiani e di Cristo stesso.
Gli evangelizzatori devono offrire una immagine di persone
mature nella fede, capaci di trovarsi insieme al di sopra delle tensioni
concrete, grazie alla ricerca comune, sincera e disinteressata della verità.
La sorte dell’evangelizzazione è legata alla testimonianza
di unità data dalla chiesa. La divisione tra i cristiani è un grave stato di
fatto che arriva a intaccare la stessa opera di Cristo: "Essa è di grave
pregiudizio alla santa causa della predicazione del vangelo a tutti gli uomini
e impedisce a molti di abbracciare la fede" (Conc. Vat. II, Att. Miss. d.
Chiesa, 6).
"La riconciliazione di tutti gli uomini con Dio, nostro
Padre, dipende dal ristabilimento della comunione di coloro che già hanno
conosciuto e accolto nella fede Gesù Cristo come Signore della misericordia che
libera gli uomini e li unisce nello Spirito di amore e di verità" (Bolla
"Apostolorum Limina". Paolo VI 1974).
Il vangelo è parola di verità. Una verità che rende liberi
(cf. Gv 8, 32) e che sola può donare la pace del cuore. Questo cercano gli
uomini quando annunziamo la buona novella: verità su Dio, verità sull’uomo e
sul suo destino misterioso, verità sul mondo. Da ogni evangelizzatore ci si
attende che abbia il culto della verità. Il predicatore del vangelo sarà dunque
colui che, anche a prezzo della rinuncia personale e della sofferenza, ricerca
sempre la verità che deve trasmettere agli altri.
Egli non tradisce né dissimula mai la verità per piacere
agli uomini, per stupire o sbalordire, né per originalità o desiderio di
mettersi in mostra. Egli non rifiuta la verità; non offusca la verità rivelata
per pigrizia nel cercarla, per comodità o per paura. Non trascura di studiarla;
la serve generosamente senza asservirla.
L’opera dell’evangelizzazione suppone nell’evangelizzatore
un amore fraterno sempre crescente verso coloro che egli evangelizza.
L’apostolo Paolo, modello di ogni evangelizzatore, scriveva: "Così
affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la
nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari" (1 Ts 2,8). Affetto
non tanto di pedagogo, ma di padre e di madre (cf. 1 Ts 2,7.11; 1 Cor 4,15; Gal
4,19).
Un segno di amore, oltre al rispetto dell’altro, sarà lo
sforzo di trasmettere ai cristiani non dubbi e incertezze nati da una
erudizione male assimilata, ma alcune certezze solide, ancorate alla parola di
Dio.
I fedeli hanno bisogno di queste certezze per la loro vita cristiana,
ne hanno diritto in quanto sono figli di Dio che si abbandonano interamente
alle esigenze del suo amore.
Tra gli ostacoli all’evangelizzazione ci limiteremo a
segnalare la mancanza di fervore,tanto più grave perché nasce dal di dentro.
Essa si manifesta nella stanchezza, nella delusione,
nell’accomodamento, nel disinteresse e, soprattutto, nella mancanza di gioia e
di speranza.
Noi esortiamo tutti gli evangelizzatori ad alimentare il
fervore dello Spirito. Questo fervore esige prima di tutto che ci sappiamo
sottrarre agli alibi che possono sviare dall’evangelizzazione.
Si sente dire spesso: imporre una verità, sia pure quella
del vangelo, imporre una via, sia pure quella della salvezza, è una violenza
alla libertà religiosa.
E aggiungono: perché annunciare il vangelo dal momento che
tutti sono salvati dalla rettitudine del cuore?
Sarebbe un errore imporre qualcosa alla coscienza dei nostri
fratelli. Ma proporre a questa coscienza la verità evangelica e la salvezza in
Gesù Cristo con piena sicurezza e nel rispetto assoluto delle libere scelte,
non è attentato alla libertà religiosa, ma un omaggio a questa libertà, alla
quale viene offerta la scelta di una via che gli stessi non credenti stimano
nobile ed esaltante. È dunque un crimine contro la libertà altrui proclamare
nella gioia, una buona novella che si è appresa per misericorda di Dio? E
perché solo la menzogna e l’errore, la degradazione e la pornografia avrebbero
il diritto di essere proposti e spesso, purtroppo, imposti dalla propaganda
distruttiva dei mass-media, dalla tolleranza dei buoni e dalla temerità dei
cattivi? Questo modo rispettoso di proporre il Cristo e il suo regno più che un
diritto è un dovere dell’evangelizzatore. Ed è un diritto degli uomini suoi
fratelli di ricevere da lui l’annuncio del vangelo di salvezza.
Questa salvezza Dio la può compiere in chi egli vuole
attraverso vie straordinarie che solo lui conosce. Però non dimentichiamo che
il Figlio di Dio è venuto apposta per rivelarci, con la sua parola e la sua
vita, i sentieri ordinari della salvezza. E ci ha ordinato di trasmettere agli
altri questa rivelazione con la sua stessa autorità.
Ogni cristiano approfondisca nella preghiera questo
pensiero: gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla misericordia
di Dio, anche se non annunciamo loro il vangelo; ma potremo noi salvarci se,
per negligenza, per paura, per vergogna o in conseguenza di idee false,
trascuriamo di annunziarlo? Sarebbe tradire la chiamata di Dio che per mezzo
dei ministri del vangelo vuol far germinare la semente; dipende da noi che
questa diventi un albero e produca tutto il suo frutto.
Conserviamo dunque il fervore dello spirito. Conserviamo la
gioia di evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime. Possa il
mondo del nostro tempo che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza,
ricevere la buona novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati,
impazienti e ansiosi, ma da ministri del vangelo la cui vita irradi fervore,
che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia di Cristo, e accettino di
mettere in gioco la propria vita affinchè il regno di Dio sia annunciato e la
chiesa sia impiantata nel cuore del mondo.
Una moltitudine di fratelli cristiani e non cristiani
attendono dalla chiesa la parola della salvezza.
Nel programma di azione pastorale della chiesa
l’evangelizzazione è l’aspetto fondamentale per questi anni che segnano la
vigilia di un nuovo secolo, la vigilia anche di un terzo millennio del
cristianesimo.
La santissima Vergine Maria, al mattino della Pentecoste, ha
presieduto con la sua preghiera all’inizio dell’evangelizzazione sotto l’azione
dello Spirito Santo; sia lei la stella della evangelizzazione sempre rinnovata
che la chiesa, docile al mandato del Signore, deve promuovere e adempiere,
soprattutto in questi tempi difficili ma pieni di speranza!
mercoledì 2 novembre 2011
Conoscerete la Verità e la Verità vi farà liberi...
“La verità vi farà liberi” Cristianesimo e libertà
Partiamo e soffermiamoci su un testo importante della Parola di Dio sul tema della libertà su cui cercheremo di farne emergere il contenuto, che è la verità nel suo rapporto con la libertà. Il testo è tratto dal Vangelo di Giovanni, in cui c’è l’affermazione: “La verità vi farà liberi”, frase suggestiva, ma anche oscura.
(Gv 8, 31-47) Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?». Gesù rispose: «In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre; se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. So che siete discendenza di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova posto in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro!». Gli risposero: «Il nostro padre è Abramo». Rispose Gesù: «Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo! Ora invece cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da Dio; questo, Abramo non l’ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero: «Noi non siamo nati da prostituzione, noi abbiamo un solo Padre, Dio!». Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alle mie parole, voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può convincermi di peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio».
Occorre esplicitare questo difficile testo per far emergere il rapporto tra verità e libertà, per spiegare perché non esiste libertà se non nella verità. Questo è uno dei punti essenziali della rivelazione cristiana. Qui si coglie uno dei punti essenziali del ministero di Cristo.
Questo discorso è fatto da Gesù a quei giudei che avevano creduto il lui, cioè che avevano incominciato a seguirlo. Lascia perplessi il fatto che questi giudei che lo seguono abbiano poi il desiderio di ucciderlo. La cosa si può spiegare nel fatto che questi giudei, pur seguendo Gesù, sono diventati sempre più perplessi; le sue parole non avevano trovato spazio nel loro cuore; probabilmente avevano seguito qualche loro progetto che poi non si stava realizzando e stavano chiudendo il loro cuore a Gesù, convinti che Lui non poteva più continuare così. Avevano, senza accorgersene, regredito; erano entrati in una sorta di realtà a lui ostile.
Gesù si rivolge a queste persone così: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli». Si diventa discepoli di Gesù soltanto prendendo dimora nella sua parola, accogliendola nelle profondità del cuore, cioè con grande fiducia e disponibilità in Lui. Solo così si diventa suoi discepoli e questo permetterà di conoscere la verità. Questa verità renderà libero il discepolo.
Questi giudei, però, si sentono già liberi, non schiavi di nessuno, sono discendenza di Abramo, appartengono al popolo eletto; come poteva Gesù dir loro che sarebbero in questo modo diventare liberi?
Le frasi che consideriamo sono: «la verità vi farà liberi» e «diventerete liberi». Per diventare liberi occorre lasciare che qualcuno operi nei nostri confronti in modo tale da renderci liberi; il soggetto è la libertà.
Poniamoci ora la domanda: «Che cosa significa essere liberi?» La risposta del Vangelo e di Gesù rimanda a essere lasciati resi tali a partire dalla verità. Qui s’introduce il tema del peccato: «Chi fa il peccato è schiavo del peccato». E se uno è schiavo non potrà entrare a pieno titolo nella casa; solo se uno è figlio lo potrà fare. Gesù aggiunge: «Se però il Figlio vi renderà liberi, lo sarete davvero». La prima sensazione è che non c’è un rapporto tra queste due affermazioni, ma, meditando queste parole si acquista la sensazione che c’è un rapporto tra la verità e il Figlio. Si ha ancora la sensazione che la verità ha a che fare con l’appartenenza alla casa di Dio, al prendere dimora là dove Dio abita; più precisamente, fare esperienza della sua paternità; il Gesù dice, infatti: «Se il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi». Gesù parla anche della paternità di Dio, in quanto quegli ebrei avevano affermato di non essere figli di prostituzione, di avere un solo padre, Dio. Il tema della paternità di Dio si collega al tema della figliolanza da parte di Gesù. Gesù spiega loro che non stanno facendo l’esperienza della paternità di Dio, quella sola che consente di essere veramente liberi. Spiega a quei giudei che l’esperienza della loro vita li faceva comportare in un modo che testimoniava che non erano liberi. Che erano nella condizione di chi non si lascia liberare e condurre nell’esperienza di vivere pienamente nella libertà. Che cosa stavano facendo questi giudei? Gesù dice: «Chi commette peccato, è schiavo del peccato», quindi non è libero. Chi commette peccato, la forma della sua vita è nel peccato, potrebbe credere, illudersi, dichiarare di essere libero, ma non lo è realmente.
Qui occorre porsi l’altra domanda: «Che cos’è il peccato?» La risposta a “fare il peccato” è molto meno difficile di quella a “che cos’è il peccato?” Quando si dice che uno è schiavo del peccato che significa? Che è condizionato dal peccato oppure che fa il peccato perché già prima era schiavo del peccato? Il peccato è solo l’atto peccaminoso che compie, oppure è anche tutto ciò che lo precede? La parola “peccato” è solo il singolare della parola più usata “peccati”, oppure essa non s’identifica solo con la singola azione che si commette? Probabilmente è il secondo caso. Gesù a questo punto si concentra su questa parola “peccato” che a suo giudizio non è separabile dalla parola “libertà”. Gesù continua: «Voi fate ciò che avete udito dal padre vostro». Gesù denuncia, svela a quei giudei la situazione in cui si trovano, che avevano progettato di ucciderlo. A questa intenzione ingiusta, che cosa sta dietro? Essi erano già nel peccato, anche se non lo avevano ancora commesso. L’avere coltivato tale intenzione già li aveva posti in una realtà di schiavitù, anche nell’illusione di essere liberi. Questa intenzione omicida rimanda a una paternità oscura, tenebrosa e mortale, perché volevano uccidere un uomo che aveva detto la verità ascoltata presso il Padre. C’è una contraddizione tra due paternità, mentre si parla di Chi è veramente Figlio. Qual è l’altra paternità? Gesù spiega: «Voi fate le opere del padre vostro». Essi ribattono: «Il padre nostro è Dio». Quando tutto questo è portato al suo epilogo, Gesù dichiara: «Voi provenite da quel padre che è il diavolo; volete dare attuazioni ai desideri – letteralmente da greco: alle passioni – del padre vostro»; sono i desideri ispirati dalla volontà di potenza.
Il termine “diabolus” significa “colui che separa”; significa il contrario della comunione. Il diavolo è colui che taglia le relazioni; interviene a isolare l’uomo chiudendolo su se stesso e impedendogli di vivere le tre relazioni fondamentali: con Dio, con l’altro e con le cose. Fa in modo che l’uomo condivida le sue “passioni” che diventano passioni mortali, distruttive, rispondendo a quella logica di autodeterminazione, isolamento, egoismo, assolutizzazione del proprio io. È tipico del “diabolus” di tagliare tutti e legami e di trovarsi da solo. Questo fa il diavolo in ambito umano, che la persona, credendosi libera, si consegni liberamente, ma in realtà come schiavo, alle sue “passioni” che lo porta ad agire in modo distruttivo, in questo caso a uccidere.
Perché queste persone vogliono uccidere Gesù? Solo per antipatia? Lo vogliono, invece, per ragioni che essi stanno coltivando dentro di sé e che hanno una radice velenosa. Ciò che Gesù offriva era diametralmente all’opposto di ciò che essi continuavano a desiderare. Del diavolo si afferma che egli è fin dal principio omicida, cioè che ha come fine la morte dell’uomo e che il suo modo di procedere è quello della menzogna, è mentitore per definizione. È padre della menzogna, ma nello stesso tempo può diventare padre degli uomini. Fa impressione il fatto che Gesù usi il termine di paternità e lo applica al diavolo; gli uomini possono essere figli del diavolo. C’è una specie di analogia tra l’essere figli del Padre che sta nei cieli e l’essere figli del diavolo. Qui s’intuisce che chi è figlio del Padre che sta nei cieli, è veramente libero, chi è figlio del diavolo non lo è.
Come si fa a capire chi è figlio del diavolo? Ci interessano le sue caratteristiche. Di Giuda il vangelo di Giovanni dice che Satana entrò in lui. Giuda diventa un indemoniato, pur mantenendo il suo aspetto normale, pur non schiumando. Però Giuda diventa l’omicida; consegna Gesù per essere crocefisso. Giuda, adagio, adagio, era entrato in sintonia con ciò che è diabolico, creando le condizioni affinché questo avvenisse. Giuda è diventato sempre più come il diavolo, fino al punto di identificarsi. Si usa il termine “desiderio” che è la tensione cui l’io è portato a guardare tutto a partire da sé nella ricerca spasmodica che l’io fa, per cui tutte le relazioni che vive sono del tutto funzionali a se stesso; tutto questo va sotto il nome di “passioni”. Su questo tema hanno riflettuto lungamente i padri della Chiesa. Essi hanno identificato otto passioni che sono poi diventate sette nel catechismo di san Pio X. Le abbiamo chiamate “i setti vizi capitali”. In essi c’è la ricerca esasperata dell’io che condiziona il soggetto in modo da renderlo schiavo, lasciandogli la convinzione di essere libero. Per peccato s’intende, allora, quella condizione che non consente all’uomo di essere autenticamente se stesso, di essere inconsciamente l’opposto. Bisogno di qualcuno che faccia capire questo all’uomo e, contemporaneamente, che qualcuno lo riscatti da tutto questo, da questa paternità distruttiva che fa leva sulle passioni del cuore, all’enigmatica tendenza dell’io a fare le cose per sé, a partire da sé, a sentirsi l’unico soggetto, a considerarsi l’assoluto e quindi a ottenere come esito ultimo la morte nella superbia, avarizia, lussuria ira, accidia gola, invidia, nelle passioni fondamentali. In tutto questo l’uomo è reso somigliante a Satana senza che se ne accorga, mentre, per orgoglio, afferma di fare quello che vuole e impedisce ad altri, a Dio stesso, di suggerirgli ciò che deve fare. La stessa legge diventa impotente.
Ci si muove veramente nel rapporto tra verità e libertà. Dove sta la verità dell’esistere dell’uomo? Dove è destinato a essere sempre? L’uomo ha la possibilità di essere se stesso, di stare dove egli è effettivamente nella verità? Lo può nell’esperienza della figliolanza con Dio Padre.
La sensazione qui è che il termine “libertà” sia relativo e non assoluto. È il modularsi dell’uomo alla verità di se stesso. È il sintonizzarsi con Dio e operare di conseguenza in maniera autodeterminata. Questa è la libertà. Non è il fare quello che si vuole, ma il volere ciò che è vero con la propria intelligenza, volontà, capacità di decidere, perché Dio non obbliga e nello stesso tempo chiama a partire da una realtà che ha già donato.
Alla domanda che fa Pilato nel vangelo di Giovanni: «Tu sei re?», Gesù risponde confermando che è re, è nato e venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità. Chi è nella verità ascolta la sua voce. Per capire in che senso Gesù è re bisogna chiamare in causa la verità ed anche per capire la verità bisogna chiamare in causa la sua regalità. Ma in che senso questa regalità chiama in causa la verità? Regalità significa che c’è un re che esercita il suo potere, è capace di custodire e difendere il suo popolo, di vincere anche contro i nemici. L’idea di regalità è quella di una potenza vittoriosa. Allora la verità è da intendersi nello stesso modo, non è una verità puramente filosofica, non è una dottrina. In Giovanni 14, 6 Gesù dice: «Io sono la via, la verità e la vita.» Lui è la verità. Se la verità ci farà liberi, significa che lo farà Lui. Lui dice: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Che significa “conoscere la verità?” Se essa fosse una dottrina, avrebbe significato lo studiarla; ma se non fosse una dottrina? Se la verità è la persona di Gesù, conoscere la verità non significa studiarla sui libri, ma accostare Gesù, creare un rapporto con Lui, ponendosi in suo ascolto, condividendo un’esperienza di vita con Lui come succede in ogni rapporto umano. Oggi noi possiamo accostare Gesù come ci accostiamo gli uni gli altri. La parola “verità”, dal greco andrebbe tradotta precisamente con il termine “rivelazione”. La frase andrebbe quindi tradotta cosi: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la rivelazione e questa rivelazione vi farà liberi». L’idea è quella di un segreto che viene comunicato, ma che ha in sé una potenzialità propria. Non è solo un far sapere, ma un comunicare, ove il soggetto è il Figlio. È un rivelare che è anche comunicare; il comunicare che il Figlio fa di se stesso agli uomini; ecco perché si parla di paternità, di paternità dignitosa che produce alle persone l’effetto di essere libere. La nostra libertà dipenderà dall’esperienza che facciamo della paternità di Dio e questa esperienza della paternità di Dio sarà possibile proprio attraverso quella rivelazione di essere figlio che Gesù ci dona. Condividendola, l’uomo ritrova se stesso e, lasciandosi ispirare da questa rivelazione che è in lui, che, essendo rivelazione regale, ha una propria potenza vittoriosa e rigenerante, l’uomo sarà portato ad agire conformemente al suo essere, in linea con quella comunione guadagnata del Figlio, con quella conoscenza del Padre, che poi gli impedirà di agire secondo le sue passioni e lo porterà a vivere pienamente e autenticamente puntando sulle relazioni, non più vivendo su di sé e auto-esaltandosi, ma aprendosi, dando piena espressione all’origine stessa del suo essere, del suo provenire da Dio. Saprà incontrare Dio, l’altro, le cose; tutto questo sarà compiuto a partire da ciò che è autentico in lui, che rimanda a quell’origine da cui proviene.
Questa verità è da intendersi come il comunicarsi del Figlio, che ha una potenza rigenerante, che riscatta l’uomo dalle illusorie pretese dell’affermazione dell’io che portano l’uomo all’annientamento di sé, mentre lo convincono del contrario.
Conclusioni:
Ci sono altri testi che trattano l’argomento verità e libertà, ma quello che abbiamo scelto colpisce per l’illusione della libertà, per la serietà del peccato. Il peccato rimanda alle passioni che portano al desiderio di glorificare se stessi per poi trasformarsi in una sorta d’isolamento totale in cui si vede solo il proprio io. Ancora: per evitare questo pericolo occorre lasciarsi raggiungere dalla rivelazione del Figlio entrando in sintonia con Lui. La potenza della manifestazione di bene di Dio si è svelata nella morte e risurrezione di Gesù. Si è svelata nel lasciarsi trafiggere di Gesù in mezzo a noi, in quel corpo da cui sono usciti quel sangue e quell’acqua. Quel corpo trafitto ha dietro un cuore, un’intenzione di amore nei confronti dell’umanità che ha svelato la paternità di Dio verso tutti gli uomini e che consente loro di ritrovarsi. Non si tratta di convincere teoricamente, ma di far percepire a una persona attraverso tutte le sue facoltà, non solo con passaggi razionali, la verità di quello che Lui è, il suo amore originario.
Questa paternità di Dio, rigenera l’uomo dalle sue passioni, lo guarisce e lo porta a desiderare, prima ancora di fare, ciò che è secondo Dio. In questo modo l’uomo si ritrova sempre più libero, capace di fare con convinzione secondo la verità di se stesso.
La verità per Gesù è l’attuarsi di ciò che è vero per l’uomo come una liberazione da parte di Dio.
L’uomo riceve questa continua rigenerazione, come grazia, tutto questo in dono nella realtà del Figlio, ma l’uomo deve consentire al dono di diventare realtà. Facendo questo l’uomo si accorge che la sua vita cambia e acquista la sua autenticità e si ritrova a non fare più ciò che prima non riusciva a non fare.
Al contrario chi, illudendosi di essere libero, fa scelte di schiavitù facendo il male. Crede di aver trovato la vita e invece sta morendo. Come si fa ad avvertire costui di quanto sta facendo? Non c’è altro modo che di offrirgli la liberazione. Fargli sentire la bellezza e la bontà di essere figlio di Dio in Cristo, offrirgli la testimonianza.
Verità, come comunicazione attraente che Dio fa all’uomo di se stesso cui è lasciata la libertà di acconsentire. Lasciar fare a Dio è la vera libertà che dà pienezza alla vera identità dell’uomo. Ascoltare la sua Parola potrebbe essere la forma per noi.
Partiamo e soffermiamoci su un testo importante della Parola di Dio sul tema della libertà su cui cercheremo di farne emergere il contenuto, che è la verità nel suo rapporto con la libertà. Il testo è tratto dal Vangelo di Giovanni, in cui c’è l’affermazione: “La verità vi farà liberi”, frase suggestiva, ma anche oscura.
(Gv 8, 31-47) Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?». Gesù rispose: «In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre; se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. So che siete discendenza di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova posto in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro!». Gli risposero: «Il nostro padre è Abramo». Rispose Gesù: «Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo! Ora invece cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da Dio; questo, Abramo non l’ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero: «Noi non siamo nati da prostituzione, noi abbiamo un solo Padre, Dio!». Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alle mie parole, voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può convincermi di peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio».
Occorre esplicitare questo difficile testo per far emergere il rapporto tra verità e libertà, per spiegare perché non esiste libertà se non nella verità. Questo è uno dei punti essenziali della rivelazione cristiana. Qui si coglie uno dei punti essenziali del ministero di Cristo.
Questo discorso è fatto da Gesù a quei giudei che avevano creduto il lui, cioè che avevano incominciato a seguirlo. Lascia perplessi il fatto che questi giudei che lo seguono abbiano poi il desiderio di ucciderlo. La cosa si può spiegare nel fatto che questi giudei, pur seguendo Gesù, sono diventati sempre più perplessi; le sue parole non avevano trovato spazio nel loro cuore; probabilmente avevano seguito qualche loro progetto che poi non si stava realizzando e stavano chiudendo il loro cuore a Gesù, convinti che Lui non poteva più continuare così. Avevano, senza accorgersene, regredito; erano entrati in una sorta di realtà a lui ostile.
Gesù si rivolge a queste persone così: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli». Si diventa discepoli di Gesù soltanto prendendo dimora nella sua parola, accogliendola nelle profondità del cuore, cioè con grande fiducia e disponibilità in Lui. Solo così si diventa suoi discepoli e questo permetterà di conoscere la verità. Questa verità renderà libero il discepolo.
Questi giudei, però, si sentono già liberi, non schiavi di nessuno, sono discendenza di Abramo, appartengono al popolo eletto; come poteva Gesù dir loro che sarebbero in questo modo diventare liberi?
Le frasi che consideriamo sono: «la verità vi farà liberi» e «diventerete liberi». Per diventare liberi occorre lasciare che qualcuno operi nei nostri confronti in modo tale da renderci liberi; il soggetto è la libertà.
Poniamoci ora la domanda: «Che cosa significa essere liberi?» La risposta del Vangelo e di Gesù rimanda a essere lasciati resi tali a partire dalla verità. Qui s’introduce il tema del peccato: «Chi fa il peccato è schiavo del peccato». E se uno è schiavo non potrà entrare a pieno titolo nella casa; solo se uno è figlio lo potrà fare. Gesù aggiunge: «Se però il Figlio vi renderà liberi, lo sarete davvero». La prima sensazione è che non c’è un rapporto tra queste due affermazioni, ma, meditando queste parole si acquista la sensazione che c’è un rapporto tra la verità e il Figlio. Si ha ancora la sensazione che la verità ha a che fare con l’appartenenza alla casa di Dio, al prendere dimora là dove Dio abita; più precisamente, fare esperienza della sua paternità; il Gesù dice, infatti: «Se il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi». Gesù parla anche della paternità di Dio, in quanto quegli ebrei avevano affermato di non essere figli di prostituzione, di avere un solo padre, Dio. Il tema della paternità di Dio si collega al tema della figliolanza da parte di Gesù. Gesù spiega loro che non stanno facendo l’esperienza della paternità di Dio, quella sola che consente di essere veramente liberi. Spiega a quei giudei che l’esperienza della loro vita li faceva comportare in un modo che testimoniava che non erano liberi. Che erano nella condizione di chi non si lascia liberare e condurre nell’esperienza di vivere pienamente nella libertà. Che cosa stavano facendo questi giudei? Gesù dice: «Chi commette peccato, è schiavo del peccato», quindi non è libero. Chi commette peccato, la forma della sua vita è nel peccato, potrebbe credere, illudersi, dichiarare di essere libero, ma non lo è realmente.
Qui occorre porsi l’altra domanda: «Che cos’è il peccato?» La risposta a “fare il peccato” è molto meno difficile di quella a “che cos’è il peccato?” Quando si dice che uno è schiavo del peccato che significa? Che è condizionato dal peccato oppure che fa il peccato perché già prima era schiavo del peccato? Il peccato è solo l’atto peccaminoso che compie, oppure è anche tutto ciò che lo precede? La parola “peccato” è solo il singolare della parola più usata “peccati”, oppure essa non s’identifica solo con la singola azione che si commette? Probabilmente è il secondo caso. Gesù a questo punto si concentra su questa parola “peccato” che a suo giudizio non è separabile dalla parola “libertà”. Gesù continua: «Voi fate ciò che avete udito dal padre vostro». Gesù denuncia, svela a quei giudei la situazione in cui si trovano, che avevano progettato di ucciderlo. A questa intenzione ingiusta, che cosa sta dietro? Essi erano già nel peccato, anche se non lo avevano ancora commesso. L’avere coltivato tale intenzione già li aveva posti in una realtà di schiavitù, anche nell’illusione di essere liberi. Questa intenzione omicida rimanda a una paternità oscura, tenebrosa e mortale, perché volevano uccidere un uomo che aveva detto la verità ascoltata presso il Padre. C’è una contraddizione tra due paternità, mentre si parla di Chi è veramente Figlio. Qual è l’altra paternità? Gesù spiega: «Voi fate le opere del padre vostro». Essi ribattono: «Il padre nostro è Dio». Quando tutto questo è portato al suo epilogo, Gesù dichiara: «Voi provenite da quel padre che è il diavolo; volete dare attuazioni ai desideri – letteralmente da greco: alle passioni – del padre vostro»; sono i desideri ispirati dalla volontà di potenza.
Il termine “diabolus” significa “colui che separa”; significa il contrario della comunione. Il diavolo è colui che taglia le relazioni; interviene a isolare l’uomo chiudendolo su se stesso e impedendogli di vivere le tre relazioni fondamentali: con Dio, con l’altro e con le cose. Fa in modo che l’uomo condivida le sue “passioni” che diventano passioni mortali, distruttive, rispondendo a quella logica di autodeterminazione, isolamento, egoismo, assolutizzazione del proprio io. È tipico del “diabolus” di tagliare tutti e legami e di trovarsi da solo. Questo fa il diavolo in ambito umano, che la persona, credendosi libera, si consegni liberamente, ma in realtà come schiavo, alle sue “passioni” che lo porta ad agire in modo distruttivo, in questo caso a uccidere.
Perché queste persone vogliono uccidere Gesù? Solo per antipatia? Lo vogliono, invece, per ragioni che essi stanno coltivando dentro di sé e che hanno una radice velenosa. Ciò che Gesù offriva era diametralmente all’opposto di ciò che essi continuavano a desiderare. Del diavolo si afferma che egli è fin dal principio omicida, cioè che ha come fine la morte dell’uomo e che il suo modo di procedere è quello della menzogna, è mentitore per definizione. È padre della menzogna, ma nello stesso tempo può diventare padre degli uomini. Fa impressione il fatto che Gesù usi il termine di paternità e lo applica al diavolo; gli uomini possono essere figli del diavolo. C’è una specie di analogia tra l’essere figli del Padre che sta nei cieli e l’essere figli del diavolo. Qui s’intuisce che chi è figlio del Padre che sta nei cieli, è veramente libero, chi è figlio del diavolo non lo è.
Come si fa a capire chi è figlio del diavolo? Ci interessano le sue caratteristiche. Di Giuda il vangelo di Giovanni dice che Satana entrò in lui. Giuda diventa un indemoniato, pur mantenendo il suo aspetto normale, pur non schiumando. Però Giuda diventa l’omicida; consegna Gesù per essere crocefisso. Giuda, adagio, adagio, era entrato in sintonia con ciò che è diabolico, creando le condizioni affinché questo avvenisse. Giuda è diventato sempre più come il diavolo, fino al punto di identificarsi. Si usa il termine “desiderio” che è la tensione cui l’io è portato a guardare tutto a partire da sé nella ricerca spasmodica che l’io fa, per cui tutte le relazioni che vive sono del tutto funzionali a se stesso; tutto questo va sotto il nome di “passioni”. Su questo tema hanno riflettuto lungamente i padri della Chiesa. Essi hanno identificato otto passioni che sono poi diventate sette nel catechismo di san Pio X. Le abbiamo chiamate “i setti vizi capitali”. In essi c’è la ricerca esasperata dell’io che condiziona il soggetto in modo da renderlo schiavo, lasciandogli la convinzione di essere libero. Per peccato s’intende, allora, quella condizione che non consente all’uomo di essere autenticamente se stesso, di essere inconsciamente l’opposto. Bisogno di qualcuno che faccia capire questo all’uomo e, contemporaneamente, che qualcuno lo riscatti da tutto questo, da questa paternità distruttiva che fa leva sulle passioni del cuore, all’enigmatica tendenza dell’io a fare le cose per sé, a partire da sé, a sentirsi l’unico soggetto, a considerarsi l’assoluto e quindi a ottenere come esito ultimo la morte nella superbia, avarizia, lussuria ira, accidia gola, invidia, nelle passioni fondamentali. In tutto questo l’uomo è reso somigliante a Satana senza che se ne accorga, mentre, per orgoglio, afferma di fare quello che vuole e impedisce ad altri, a Dio stesso, di suggerirgli ciò che deve fare. La stessa legge diventa impotente.
Ci si muove veramente nel rapporto tra verità e libertà. Dove sta la verità dell’esistere dell’uomo? Dove è destinato a essere sempre? L’uomo ha la possibilità di essere se stesso, di stare dove egli è effettivamente nella verità? Lo può nell’esperienza della figliolanza con Dio Padre.
La sensazione qui è che il termine “libertà” sia relativo e non assoluto. È il modularsi dell’uomo alla verità di se stesso. È il sintonizzarsi con Dio e operare di conseguenza in maniera autodeterminata. Questa è la libertà. Non è il fare quello che si vuole, ma il volere ciò che è vero con la propria intelligenza, volontà, capacità di decidere, perché Dio non obbliga e nello stesso tempo chiama a partire da una realtà che ha già donato.
Alla domanda che fa Pilato nel vangelo di Giovanni: «Tu sei re?», Gesù risponde confermando che è re, è nato e venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità. Chi è nella verità ascolta la sua voce. Per capire in che senso Gesù è re bisogna chiamare in causa la verità ed anche per capire la verità bisogna chiamare in causa la sua regalità. Ma in che senso questa regalità chiama in causa la verità? Regalità significa che c’è un re che esercita il suo potere, è capace di custodire e difendere il suo popolo, di vincere anche contro i nemici. L’idea di regalità è quella di una potenza vittoriosa. Allora la verità è da intendersi nello stesso modo, non è una verità puramente filosofica, non è una dottrina. In Giovanni 14, 6 Gesù dice: «Io sono la via, la verità e la vita.» Lui è la verità. Se la verità ci farà liberi, significa che lo farà Lui. Lui dice: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Che significa “conoscere la verità?” Se essa fosse una dottrina, avrebbe significato lo studiarla; ma se non fosse una dottrina? Se la verità è la persona di Gesù, conoscere la verità non significa studiarla sui libri, ma accostare Gesù, creare un rapporto con Lui, ponendosi in suo ascolto, condividendo un’esperienza di vita con Lui come succede in ogni rapporto umano. Oggi noi possiamo accostare Gesù come ci accostiamo gli uni gli altri. La parola “verità”, dal greco andrebbe tradotta precisamente con il termine “rivelazione”. La frase andrebbe quindi tradotta cosi: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la rivelazione e questa rivelazione vi farà liberi». L’idea è quella di un segreto che viene comunicato, ma che ha in sé una potenzialità propria. Non è solo un far sapere, ma un comunicare, ove il soggetto è il Figlio. È un rivelare che è anche comunicare; il comunicare che il Figlio fa di se stesso agli uomini; ecco perché si parla di paternità, di paternità dignitosa che produce alle persone l’effetto di essere libere. La nostra libertà dipenderà dall’esperienza che facciamo della paternità di Dio e questa esperienza della paternità di Dio sarà possibile proprio attraverso quella rivelazione di essere figlio che Gesù ci dona. Condividendola, l’uomo ritrova se stesso e, lasciandosi ispirare da questa rivelazione che è in lui, che, essendo rivelazione regale, ha una propria potenza vittoriosa e rigenerante, l’uomo sarà portato ad agire conformemente al suo essere, in linea con quella comunione guadagnata del Figlio, con quella conoscenza del Padre, che poi gli impedirà di agire secondo le sue passioni e lo porterà a vivere pienamente e autenticamente puntando sulle relazioni, non più vivendo su di sé e auto-esaltandosi, ma aprendosi, dando piena espressione all’origine stessa del suo essere, del suo provenire da Dio. Saprà incontrare Dio, l’altro, le cose; tutto questo sarà compiuto a partire da ciò che è autentico in lui, che rimanda a quell’origine da cui proviene.
Questa verità è da intendersi come il comunicarsi del Figlio, che ha una potenza rigenerante, che riscatta l’uomo dalle illusorie pretese dell’affermazione dell’io che portano l’uomo all’annientamento di sé, mentre lo convincono del contrario.
Conclusioni:
- Alla domanda: «Che cosa significa essere liberi?» si risponde che liberi si diventa.
- Ci si può illudere di essere liberi; in realtà non lo si è affatto.
- C’è un modo di agire, spesso inconsapevolmente distruttivo che si configura come l’assecondare le proprie passioni in vista di una presunta propria libertà e nella ricerca di una illusoria esperienza di vita. Cioè non è sufficiente dire: ” poiché io decido questo, dimostro di essere libero”; perché se quanto compio è una ricerca esasperata del mio io per assecondare le mie passioni, in questo modo io, pur partendo dalla mia libertà, mi dimostro schiavo.
- Si aggiunge a questo quello che noi, con un termine non suo, abbiamo chiamato la “tentazione”. La tentazione fa parte dell’uomo così com’è. “Il demonio è menzognero fin dall’inizio”, cioè da quando l’uomo è quello che abbiamo conosciuto; esiste l’illusione di trovare la vita, mentre, in realtà, si va verso la morte. Il segreto del demonio è suscitare il desiderio; nella Genesi il demonio suscita il desiderio del frutto proibito: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?» Il desiderio è la tensione fortissima di mangiare dell’albero proibito; “sarete come Dio; si accorsero di essere nudi”.
Ci sono altri testi che trattano l’argomento verità e libertà, ma quello che abbiamo scelto colpisce per l’illusione della libertà, per la serietà del peccato. Il peccato rimanda alle passioni che portano al desiderio di glorificare se stessi per poi trasformarsi in una sorta d’isolamento totale in cui si vede solo il proprio io. Ancora: per evitare questo pericolo occorre lasciarsi raggiungere dalla rivelazione del Figlio entrando in sintonia con Lui. La potenza della manifestazione di bene di Dio si è svelata nella morte e risurrezione di Gesù. Si è svelata nel lasciarsi trafiggere di Gesù in mezzo a noi, in quel corpo da cui sono usciti quel sangue e quell’acqua. Quel corpo trafitto ha dietro un cuore, un’intenzione di amore nei confronti dell’umanità che ha svelato la paternità di Dio verso tutti gli uomini e che consente loro di ritrovarsi. Non si tratta di convincere teoricamente, ma di far percepire a una persona attraverso tutte le sue facoltà, non solo con passaggi razionali, la verità di quello che Lui è, il suo amore originario.
Questa paternità di Dio, rigenera l’uomo dalle sue passioni, lo guarisce e lo porta a desiderare, prima ancora di fare, ciò che è secondo Dio. In questo modo l’uomo si ritrova sempre più libero, capace di fare con convinzione secondo la verità di se stesso.
La verità per Gesù è l’attuarsi di ciò che è vero per l’uomo come una liberazione da parte di Dio.
L’uomo riceve questa continua rigenerazione, come grazia, tutto questo in dono nella realtà del Figlio, ma l’uomo deve consentire al dono di diventare realtà. Facendo questo l’uomo si accorge che la sua vita cambia e acquista la sua autenticità e si ritrova a non fare più ciò che prima non riusciva a non fare.
Al contrario chi, illudendosi di essere libero, fa scelte di schiavitù facendo il male. Crede di aver trovato la vita e invece sta morendo. Come si fa ad avvertire costui di quanto sta facendo? Non c’è altro modo che di offrirgli la liberazione. Fargli sentire la bellezza e la bontà di essere figlio di Dio in Cristo, offrirgli la testimonianza.
martedì 1 novembre 2011
LE BEATITUDINI
Le Beatitudini sono le grandi sconosciute dei cristiani.
Come mai quello che è il tema centrale dei vangeli è sconosciuto alle
persone?
Voi sapete che una delle critiche che è stata fatta alla religione è quella di
essere “oppio dei popoli”, cioè una sostanza che addormenta la gente ed il
cristianesimo fu tra i principali imputati di essere questa religione come
oppio dei popoli, ed in particolare proprio il contenuto delle beatitudini.
In effetti, se uno legge il vangelo, almeno nella traduzione o
nell’interpretazione del passato, legge “
beati i poveri, beati gli afflitti, beati
gli affamati...”
ed uno dice: ma dove siamo!
O questa persona che ha scritto queste cose, e che ha detto queste cose
non ha mai conosciuto i poveri, non sa che cosa è l’afflizione, non sa che cosa
è la fame.
E poi beati, perché? E la risposta, pronta, almeno la tradizione del passato:
“beati i poveri”, perché? Perché di essi è il regno dei cieli.
Cioè cosa significa? Vanno in paradiso, ma i poveri, che sono poveri ma
stupidi no, si domandavano: “Ma in paradiso guarda che ci vanno anche i
ricchi, anzi ci passano avanti, perché loro quando muoiono lasciano i soldi per
le messe e quindi noi siamo fregati di qui e di là”.
Allora le beatitudini sono state il grande fallimento del messaggio di Gesù;
perché sapete cosa successe in passato?
Chi era nella condizione di povertà, nella condizione di afflizione, nella
situazione di fame, appena gli si offriva anche una minima occasione di uscire
anche solo un po’ da questa situazione di povertà, di afflizione e di fame, ne
veniva fuori. Ma guarda che se non sei più povero non sei beato!
Ah, guarda, te la lascio tutta a te la beatitudine!
E d’altro canto coloro che non erano poveri né afflitti si guardavano bene di
diventare poveri, afflitti e affamati, per essere beati. E questo è stato il
fallimento del messaggio di Gesù ed ha portato alla non conoscenza di questo
messaggio.
3
Un po’ ovunque, se si chiede ai partecipanti delle conferenze quanti sono i
comandamenti di Mosè, tutti sanno che sono 10. Quando si chiede di
enunciarli, si fa un po’ di confusione, ma tutti e 10 vengono fuori.
Ma queste sono le leggi che Mosè ha dato al popolo di Israele, non la
proposta che Gesù ha fatto alla comunità cristiana.
Si vedrà tra poco che l’equivalente dei comandamenti per la comunità di
Matteo - perché tratteremo le beatitudini in Matteo - sono le beatitudini.
Ebbene, a malapena si trovano persone che sanno quante sono le beatitudini,
e quando si chiede di enumerarle, enunciarle, non si riesce ad arrivarci.
La prima la conoscono tutti perché è la più antipatica, poi viene fuori una
confusione. Le beatitudini non sono un qualcosa di appetibile, un qualcosa che
attiri l’aspirazione degli uomini.
Ma è possibile che Gesù abbia proposto un messaggio così alienante? É
possibile che Gesù sia il principale imputato per cui la religione è l’oppio dei
popoli? In realtà non è così.
Vedremo leggendo queste beatitudini, che esse sono tutte quante legate, ed
in particolar modo con la prima, vedremo che
il messaggio di Gesù non è
oppio dei popoli, ma è adrenalina per i popoli
, è quello che mette in circolo
energie, forze vitali capaci di cambiare la società; ecco perché l’ultima
beatitudine parla della persecuzione.
Vedremo almeno le linee principali di questo testo che per i credenti, se
conosciuto bene può rafforzare le ricchezze della propria fede, ma anche
per il non credente è la conoscenza di un testo di grande valore letterario,
perché gli evangelisti - lo sapete - erano dei grandi teologi, dei grandi
letterati che possono competere con i nomi mondiali della letteratura.
Esamineremo il testo di Matteo, perché ogni evangelista, ha un suo piano
teologico; allora è buona cosa, prima di affrontare la lettura di qualunque
brano del vangelo, cercare di capire quale è il piano teologico
dell’evangelista.
Cosa significa che ogni evangelista ha un suo piano teologico?
Che tutti gli evangelisti annunciano lo stesso identico messaggio, le forme, le
formule e i modelli per annunciarlo sono diversi secondo l’intento
dell’evangelista, secondo la sua statura teologica, letteraria, ma soprattutto
tenendo conto a chi andava il messaggio.
4
Ebbene, l’autore del vangelo di Matteo si rivolge ad una comunità di giudei
che hanno riconosciuto ed hanno accettato in Gesù il Messia atteso, ma a
condizioni che sia nella linea della tradizione, cioè sulla scia di Mosè e del
profeta Elia.
Allora l’evangelista compie un’abile opera didattica e letteraria per far
comprendere, sulla falsariga della vita degli avvenimenti di Mosè, che Gesù è
superiore.
Allora cosa fa questo evangelista?
•
Mosè si credeva a quel tempo fosse l’autore dei primi cinque libri della
Bibbia, quelli che sono conosciuti con il termine Pentateuco, cioè i primi
cinque libri che compongono la legge; allora Matteo compone la sua
opera dividendola esattamente in 5 parti, ognuna delle quali termina
con parole simili, identiche, con le quali terminava uno dei libri di Mosè.
Quindi il vangelo di Matteo è diviso in 5 parti.
•
Poi conosciamo tutti la storia di Mosè, l’avvenimento straordinario,
miracoloso, che lo salvò dall’ordine del Faraone di uccidere tutti i
bambini ebrei primogeniti; ed ecco perché soltanto in Matteo, e non
negli altri evangelisti, troviamo l’episodio della strage dei bambini di
Betlemme voluta da quello che generalmente viene presentato come il
nuovo Faraone, cioè, il potente, l’uomo del potere, e c’è solo in Matteo
perché vuol far vedere l’equivalente.
•
Poi il momento importante nella vita di Mosè è quando sale su un monte,
il Sinai, e li da Dio promulga l’alleanza con il popolo. Ebbene anche Gesù
in questo vangelo sale su un monte, ma non da Dio, ma Lui, che è stato
presentato sin dalle prime righe del vangelo come
il Dio con noi,
annuncia la nuova alleanza. Gesù è venuto a proporre una relazione con
Dio completamente diversa da come era conosciuta nel mondo giudaico.
Gesù è venuto a traghettare le persone dal mondo della religione a
quello della fede.
Quale è la differenza tra religione e fede? Per
religione si intende tutto ciò che l’uomo deve fare nei confronti di Dio;
questo con Gesù è terminato. Con Gesù inizia una relazione nuova con
Dio dove non conta più ciò che l’uomo fa nei confronti di Dio, ma nella
accoglienza di ciò che Dio fa per gli uomini. Allora la proposta di Gesù
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non può essere catalogata nella categoria della religione, ma in quella
della fede.
E Gesù è venuto a proporre un nuovo rapporto con il
Padre, con Dio, che non è più basato sull’obbedienza della sua
legge, ma sulla accoglienza e sulla somiglianza del suo amore
. É
importante che abbiamo presente questa distinzione perchè, nel
giudaismo il credente era colui che obbediva a Dio osservando le sue
leggi. Se c’è una legge, significa che alcune persone per la loro
particolare situazione sociale, civile, religiosa, morale, sessuale, non
possono osservare questa legge, allora vengono discriminati non
potendo avere ciò che permette di avere il rapporto con Dio, dalla
comunione con Dio, e catalogati tra osservanti e non osservanti. Gesù
allora è venuto a cambiare il rapporto con il Padre, non più il credente,
colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi, ma colui che
assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo. Obbedire,
osservare certe leggi non a tutti è possibile, accogliere l’amore
immeritato, incondizionato del Padre è possibile a tutti quanti. Nella
prima categoria, quella religiosa vigeva il merito, l’uomo deve meritare
l’amore di Dio, e questo è ingiusto perché ci sono delle persone che per
la loro situazione non riescono a meritare l’amore di Dio; con Gesù
finisce la categoria del merito, l’amore di Dio non va più meritato, ma
va accolto come dono gratuito del suo amore. Questa è la novità
portata da Gesù e viene formulata dagli evangelisti secondo il loro
modello letterario che adesso vedremo.
•
Poi sapete che Mosè non riuscì ad entrare nella terra promessa, ma
morì sul monte Nebo. Ecco perché Gesù, soltanto nel vangelo di
Matteo, termina la sua azione conclusiva su un monte. Ma, mentre nel
libro del Deuteronomio quella che viene presentata è una scena di
morte di Mosè, con il bisogno di dare un successore che guidi il popolo
per entrare nella terra promessa, quella di Matteo termina sul monte;
ed è l’unico evangelista che termina la narrazione su un monte, ma non
c’è una scena di morte, bensì la scena di una vita che è stata più forte
della morte. E mentre Mosè ha avuto bisogno di un successore, Gesù
non ha bisogno di un successore. Le ultime parole che Gesù pronuncia in
6
questo vangelo “
ecco io sono con voi per sempre”, letteralmente fino
alla fine dei tempi, che non indica una scadenza, ma una qualità di
presenza. Gesù è sempre presente nella sua comunità.
Allora vediamo questo episodio; abbiamo visto Mosè che sale sul monte e da
Dio annuncia i comandamenti, i 10 comandamenti erano per un singolo popolo,
per il popolo di Israele.
La novità che ha portato Gesù è che sale su un monte, ma Lui che è Dio
annunzia un qualcosa di nuovo: le beatitudini.
Le beatitudini l’evangelista le costruisce con un grande capolavoro
letterario.
Anzitutto è importante il numero delle beatitudini: in Matteo sono 8.
Perchè questo numero?
Nel cristianesimo primitivo era importante perché era il numero, la cifra che
simboleggiava la resurrezione di Cristo.
Gesù è risuscitato il primo giorno dopo la settimana, cioè il giorno ottavo:
allora il numero otto nel cristianesimo primitivo ebbe la figura della
resurrezione.
Ecco perché nell’antichità i battisteri, cioè il luogo dove venivano battezzati,
avevano tutti quanti una forma ottagonale, perché il numero 8 indica la vita
indistruttibile.
Allora
•
mentre l’osservanza dei comandamenti garantiva lunga vita qui su
questa terra,
•
l’accoglienza delle beatitudini garantisce qui già da questa
esistenza una vita di una qualità che è indistruttibile.
Ecco perché Gesù quando parla della vita eterna non ne parla mai alla
maniera giudaica. Nel mondo giudaico la vita eterna era un premio futuro da
conseguire per la buona condotta nel presente.
Invece Gesù ne parla sempre al presente.
La vita eterna non è un premio nel futuro, ma una possibilità da sperimentare
ora. Chi accoglie il messaggio di Gesù e lo traduce in pratica sentirà liberare
dentro di lui certe energie, certe capacità, certe forze vitali d’amore che lo
portano già in una dimensione che è quella definitiva.
7
Allora l’evangelista calcola il numero delle beatitudini: 8, significando così
che la pratica, l’accoglienza di questo messaggio produce nell’uomo una vita
di una qualità tale che è indistruttibile.
Ma addirittura - potrà sembrare qualcosa di maniaco, di pignolo, ma era lo
stile letterario dell’epoca - l’evangelista calcola esattamente di quante
parole comporre le beatitudini. E per arrivare al numero voluto inserisce una
particella che di per se non era necessaria grammaticalmente, perché
l’evangelista compone le beatitudini con esattamente 72 parole.
Perché 72?
Perché secondo il computo che c’è nel libro del Genesi al cap. 10, le
popolazioni pagane conosciute a quell’epoca erano appunto rappresentate
dalla cifra 72, che sta ad indicare tutto l’universo conosciuto, il mondo
pagano.
Ricordate nel vangelo di Luca quando Gesù manda 72 discepoli?
Cosa vuol significare l’evangelista?
Mentre i comandamenti sono per un singolo popolo, Israele, le beatitudini
sono per tutta l’umanità, tutti possono accogliere questo messaggio.
La prima beatitudine non è stata collocata a caso, è la condizione perché
esistano tutte le altre ed è la beatitudine che crea più difficoltà. La
conosciamo, è quella della beatitudine dei poveri, è quella che ci sembra la
più antipatica.
“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”,
o letteralmente
“Beati i poveri per lo spirito, perché di questi è il regno dei cieli”
Mai, mai Gesù nei vangeli ha detto che i poveri sono beati, mai. Quindi
affermare che Gesù ha detto che sono beati i poveri, cioè quelli che la
società ha reso poveri, non è vero.
Mai Gesù nei vangeli dichiara i poveri beati. I poveri sono disgraziati
che è compito e responsabilità della comunità cristiana togliere dalla
condizione di povertà
.
Come è nata questa diceria che Gesù abbia esaltato la povertà?
Sapete che uno dei problemi che ha avuto la chiesa cattolica, è che il vangelo
fu scritto in greco (la lingua commerciale dell’epoca), ma nell’arco di pochi
decenni il greco tramontò come lingua internazionale e in occidente fu
8
soppiantato dal latino, in oriente dal siriaco, e nell’africa dal copto: allora ci
fu bisogno di tradurre i testi dall’originale nelle lingue parlate.
Nella traduzione dal greco al latino certe sottigliezze grammaticali, certe
finezze non poterono essere conservate, poi l’interpretazione che la chiesa
diede, fece si che per l’immaginario della gente Gesù avesse proclamato
“beati i poveri”.
Anzitutto le beatitudini sono scandite da questo invito: “beati”, “beati” per 8
volte.
Cosa significa il termine
beato (mak£rioj)?
A quell’epoca indicava la
felicità piena e totale che era la caratteristica
gelosa ed esclusiva delle divinità. Nel mondo pagano gli dei avevano delle
esclusive, una di queste era la felicità. Quando si accorgevano che sulla
terra qualcuno raggiungeva una soglia di felicità che loro giudicavano
esagerata, lo colpivano con qualche disgrazia.
Ebbene Gesù per 8 volte invita alla pienezza della felicità. Mentre la
religione promette una illusoria felicità, insegna la felicità nell’aldilà (soffri
di qua, sarai felice nell’aldilà), Gesù no, Gesù è venuto ad annunziare che è
possibile essere pienamente felici qui su questa esistenza.
Che ti interessa essere felice nell’aldilà se si soffre qui? Gesù è venuto a
proporre un nuovo tipo di rapporto con Dio, ma sopratutto un nuovo tipo di
relazione con le persone che renda possibile la felicità, non limitata, non a
metà ma una felicità piena e totale qui su questa esistenza.
Dio non è
nemico della felicità, Dio è l’autore della felicità, e desidera che questa
felicità sia la condizione di ogni uomo.
Allora Gesù per 8 volte invita alla pienezza della felicità qui su questa terra.
Ecco perché il messaggio di Gesù non è alienante, non è la promessa di una
felicità nell’aldilà, ma qui su questa terra.
Allora Gesù proclama beati, cioè pienamente felici chi?
“
I poveri di spirito”, o per lo spirito.
Quindi mai Gesù proclama beati i poveri semplicemente in questo caso i
poveri di spirito. Tutto sta a cercare di capire cosa significa questo poveri
di spirito, quindi non beati i poveri che la società ha reso tali, ma quelli che
sono poveri di spirito.
Dal punto di vista grammaticale “
Poveri di spirito” può significare:
9
•
deficienza dell’individuo: quelli che sono carenti di spirito, i deficienti,
e non sembra possibile che Gesù abbia proclamato beati i deficienti, i
tonti, poverini. Questi sono persone che è compito della comunità
cristiana aiutare e agevolare, ma non è certo l’aspirazione della
comunità cristiana.
•
Poveri nello spirito può significare atteggiamento spirituale; e guarda
caso questa è stata proprio l’interpretazione che venne scelta in
passato dalla chiesa. Cosa significa poveri nello spirito? Tu sei ricco,
mantieni le tue ricchezze, l’importante è che ne sei spiritualmente
distaccato, e non si è mai capito che cosa significasse per un ricco
essere spiritualmente distaccato delle sue ricchezze. La povertà di
spirito si trasformò in spirito di povertà. E questa guarda caso è stata
la versione che ha imperato nella chiesa in passato. Non si chiedeva ai
ricchi di rinunciare alla loro ricchezza, ma l’importante era che ne
fossero distaccati, magari ricordandosi ogni tanto di fare un offerta
di beneficenza per le opere della chiesa…. Ma siccome questa è la
beatitudine più difficile da digerire, sarà quella sulla quale Gesù
ritornerà più volte in questo vangelo. Quando Gesù chiede al ricco di
rinunciare alle sue ricchezze e questo rifiuta e se ne va via, Gesù non
gli corre dietro cercando di attenuare la sua esigenza. Non è che gli
dice: “tienile, l’importante è che ne sei distaccato spiritualmente”. Il
distacco dalle ricchezze è immediato, effettivo e radicale. Quindi
Gesù non richiede un distacco spirituale, ma un distacco reale.
•
Poveri per lo spirito, può significare scelta esistenziale; cioè non
persone che la società ha reso povere, ma
persone che per lo spirito,
cioè per la forza interiore, scelgono loro volontariamente di
entrare nella condizione della povertà
.
Ma cosa significa entrare nella condizione della povertà?
Al termine delle beatitudini c’è la reazione un po’ sorpresa della gente, e
Gesù dichiara:
non pensate che io sia venuto ad abolire la legge ed i profeti,
cioè le due parti che componevano l’AT,
ma sono venuto a portarla a
compimento
. Gesù è venuto a realizzare pienamente il disegno di Dio
sull’umanità che già Mosè aveva espresso, cioè che nel mio popolo nessuno sia
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bisognoso. Questa è la volontà di Dio. Sapete che a quell’epoca ogni nazione
aveva la sua divinità, e come si faceva a credere quale fosse, non tanto la
divinità vera, perché credevano che fossero tutte vere, ma quale è il Dio più
importante?
Ebbene la sfida d’Israele era questa: se nel popolo nessuno sarà bisognoso,
la gente dovrà credere che veramente il dio di Israele è quello vero.
Ecco perché nella primitiva comunità di Gerusalemme, scrive l’evangelista
Luca che testimoniavano con grande forza la resurrezione di Gesù, come?
Non con un catechismo, con proclami, ma infatti tra di loro nessuno era
bisognoso. L’unica prova che Cristo è risorto, è che nella comunità non ci
sono persone che hanno e persone che non hanno. Alla cena della comunità
nessuno è bisognoso, unica prova, non ce ne sono altre. E Gesù è venuto a
portare a compimento questo, a realizzare questo, solo che è difficile.
Quando vai a toccare il portafoglio delle persone, cari miei, questo è un
argomento che non va.
C’è nel vangelo di Luca, e sembra quasi umoristico, Gesù è seguito da una
folla enorme perché va a Gerusalemme dove pensano di andare a conquistare
e dividere il bottino.
E Gesù fa 3 tappe e dice:
•
guardate che vado a Gerusalemme a soffrire (e siamo pronti a soffrire
con te)
•
forse sarò messo a morte (siamo pronti a morire per te)
•
adesso chi non vende tutto quello che ha, non pensi di seguirmi.
Caro Messia, vai a Gerusalemme, poi quando l’hai conquistata mi mandi una
cartolina…. La folla lo ha abbandonato.
Quando tocchi l’interesse, e questo è talmente vero che la comunità
cristiana è riuscita a trasformare nel suo significato anche la preghiera del
Padre Nostro. Quando nel Padre Nostro Gesù afferma in quella richiesta:
e
rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori
, non sta
trattando del perdono delle colpe, non sta trattando di qualcosa di
spirituale, ma qualcosa di molto concreto: la cancellazione reale e radicale
dei debiti.
Perché Gesù fa cosi?
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Abbiamo visto che il Signore attraverso Mosè aveva emanato la speranza,
l’ideale: nessuno nel mio popolo sia bisognoso. Allora che cosa avevano fatto,
avevano fatto la legge che ogni 7 anni tutti i debiti venivano cancellati. La
legge era buona, la realtà peggiorò la situazione dei bisognosi. Ma chi era
quel matto che andava a prestare allo scadere del sesto o settimo anno, e
poi il debito veniva cancellato? E chi era quello che prestava a chi sapeva che
non aveva le garanzie certe e sicure di avere indietro il prestito? Quindi
questa legge che era stata a favore dei poveri, si ritorse contro di loro.
Ma Gesù l’ha ripescata, ma non ogni 7 anni, ma come pratica abituale che è il
riconoscimento della comunità. Cancella a noi i nostri debiti, si riteneva nella
concezione dell’epoca che l’uomo fosse debitore verso il Signore per la vita,
la natura, come noi abitualmente cancelliamo i debiti degli altri. Ma debiti
economici, perché forse è più facile (anche se difficile) perdonare una colpa
piuttosto che cancellare un debito, specialmente se è rilevante. E questo
insegnamento di Gesù è stato quindi spiritualizzato.
Allora Gesù in questa beatitudine che cosa chiede? Quelli che liberamente,
volontariamente, per lo spirito, (la forza interiore) entrano nella categoria di
povertà, ma non per andarsi ad aggiungere ai tanti poveri che ci sono nel
mondo, altrimenti è inutile, Gesù cosa sta chiedendo? Non sta chiedendo ai
suoi di spogliarsi, ma di vestire chi è nudo, ed ognuno di noi può vestire
qualcuno che è nudo senza bisogno di spogliarsi. Gesù sta chiedendo, la
categoria della povertà va compresa e ritradotta nella nostra cultura,
abbassate il vostro livello di vita per permettere a quelli che lo hanno
troppo basso di innalzarlo
.
Come Gesù stesso che, secondo il NT, da ricco che era si è fatto povero
perché i poveri fossero ricchi. Gesù, il Signore, vuol far entrare tutti quanti
nella categoria dei signori, ma non dei ricchi.
Gesù è severo con i ricchi, tanto che dice che nessun ricco entra nel regno
dei cieli: perché nessun ricco può entrare nella sua comunità nel regno dei
cieli?
Che cosa significa che Gesù il Signore ci invita ad entrare nella categoria dei
signori? Il signore è colui che dà, e tutti possiamo essere signori. Il dare non
dipende dalla salute, non dipende dalla cultura, non dipende neanche da
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quello che ha. Tutti siamo chiamati ad essere signori, quindi Gesù il Signore
ci invita ad essere signori.
Ed il ricco chi è? É colui che ha e trattiene per sè.
Allora per Gesù non c’è posto per il ricco nella sua comunità, perché la
comunità di Gesù è composta da signori, ma non da ricchi. A quell’epoca
c’erano i poveri di Jahvè quelli cioè che si fidavano del Signore per uscire
dalla povertà; ma qui con Gesù succede il contrario, ci sono quelli che si
fidano talmente del Signore che decidono loro di entrare nella povertà.
I poveri per lo spirito sono quelli che liberamente, volontariamente, per
amore si sentono responsabili della felicità e del benessere degli altri
.
Ebbene dal momento che capita questo, Gesù dice “
beati perché di essi è il
regno dei cieli.
Ed allora ci risiamo: siccome abbiamo questa immagine spiritualizzata
rientra di nuovo l’aldilà?
No, Matteo è l’unico evangelista che adopera la formula “regno dei cieli”, non
esiste negli altri evangelisti.
Là dove gli altri parlano di “regno di Dio”, Matteo usa la formula “regno dei
cieli” perché scriveva per dei giudei ed i giudei evitavano di nominare ed
anche scrivere il nome di Dio.
Allora Matteo, tutto teso a non urtare la loro suscettibilità, tutte le volte
che può sostituisce il termine “Dio” con il termine “cieli”.
Lo facciamo anche noi nella lingua italiana, solo che non ce ne accorgiamo
quando diciamo: “grazie al cielo”: mica ringraziamo l’atmosfera, ma grazie a
Dio. Oppure: “che il ciel non voglia”, cioè Dio non voglia.
“Regno dei cieli” non è l’aldilà, ma il regno di Dio.
Che cosa significa regno di Dio? Israele veniva da una esperienza disastrosa
della monarchia, Dio non aveva voluto la monarchia, perché Dio non tollera
che ci sia un uomo che possa comandare su altri uomini, ma Israele l’ha
voluta nonostante la contrarietà del Signore. Ed il Signore attraverso i
profeti dice: guardate che i vostri re prenderanno i vostri figli per farne
guerrieri, le vostre figlie per farne le loro serve, prenderanno i vostri campi
migliori…Non ci importa, noi vogliamo un re come gli altri popoli.
Ed è stato l’inizio della disgrazia nazionale di Israele. Un re peggio dell’altro
che poi portò ad una lotta fratricida fra i vari regni, e le potenze vicine
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occuparono ed assorbirono poi Israele. Allora fece sì che si proiettò in Dio il
re ideale, ed il re ideale era colui che si occupava dei poveri e degli
emarginati.
Allora dire che “di essi è il regno dei cieli”, significa che Dio era il loro re,
cioè, che queste persone sono governate direttamente de Dio, e Dio non
governa emanando leggi che gli uomini devono osservare, ma comunicando il
suo spirito.
Allora questa prima beatitudine, che ha il verbo al presente, non dice che di
essi sarà il regno dei cieli, cioè un domani, ma è immediato.
Se c’è un gruppo – attenzione, non un individuo: le beatitudini non sono mai
rivolte ad un singolo individuo, ma sempre ad una pluralità - Gesù non viene a
dire beato chi, ma beati voi.
Perché Gesù parla al plurale?
Non gli serve una persona che faccia questo, perché Lui vuol incidere
profondamente nella società per cambiarne radicalmente il volto, ed allora
ha bisogno di un gruppo, di una comunità.
Ebbene Gesù assicura questo: se c’è un gruppo di persone che oggi,
immediatamente che sceglie liberamente, volontariamente per amore di
essere responsabile della felicità e del benessere degli altri, da quel
momento succede qualcosa di straordinario, Dio si prende cura di loro; è
un cambio meraviglioso. Se noi ci prendiamo cura degli altri, finalmente
permettiamo a Dio di prendersi cura di noi.
Allora sapete cosa succede?
Che si passa dal credere che Dio è Padre a sperimentarlo: è grande la
differenza. Quando si chiede alla gente, ai cristiani, se credono che Dio è
Padre normalmente tutti dicono si. È un po’ più difficile quando si chiede
loro: “ma lo hai sperimentato come Padre?” e qui nascono i problemi. È la
tragedia di noi cristiani: ci hanno imbottito di ideologie, ma non ci hanno
trasmesso esperienze vitali; ci hanno fatto credere che Dio è Padre - ed è
giusto - ma non ce lo hanno fatto sperimentare.
Ecco come si può sperimentare, se ci prendiamo cura e diventiamo
responsabili della felicità e del benessere degli altri, da quel momento
esatto permettiamo a Dio di prendersi cura Lui della nostra felicità, e la vita
cambia perché si sperimenta quotidianamente, anche negli aspetti minimi
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insignificanti dell’esistenza, la presenza tenera di un Padre che in qualunque
situazione lo senti che ti sussurra: “non ti preoccupare, fidati di me”.
Questo non significa che vengono tolte le difficoltà, le avversità che la vita
fa incontrare, ma c’è una forza nuova, una capacità nuova per viverle.
Ecco la prima beatitudine. Gesù è molto chiaro.
Quelli che liberamente, volontariamente per amore decidono oggi, in
questo momento, di essere responsabili della felicità degli altri, beati
perché di questi, ma non degli altri, si prende cura Dio
(Questo è il
significato del regno dei cieli).
Se c’è questo, ecco che vengono tutte le altre beatitudini, tutte le altre
beatitudini sono condizionate dalla prima.
La prima ha il verbo al presente, tutte le altre, meno l’ultima, hanno il verbo
al futuro.
Nelle altre beatitudini l’evangelista presenta da prima situazioni negative
dell’umanità che sarà compito della comunità che ha scelto la prima
beatitudine di eliminare.
La prima di queste situazioni di sofferenza dell’umanità è:
“
Beati gli afflitti, perché saranno consolati”. o letteralmente “Beati gli
afflitti, perché questi saranno consolati”
Gesù afferma beati gli afflitti o gli oppressi (il termine
penqoàntej può
essere tradotto in entrambe le maniere), perché questi saranno consolati.
Anche qui non significa che i disgraziati di questo mondo un domani nell’aldilà
saranno consolati. Ma che gli interessa a chi in questo momento soffre, a chi
in questo momento piange, a chi gli interessa sapere che un domani saranno
consolati?
E poi Gesù non parla di conforto, ma di consolazione che è qualcosa di
diverso.
Conoscete certamente il libro di Giobbe, questo uomo pio al quale capitano
tutte le disgrazie di questo mondo: gli bruciano i campi, muore il bestiame,
muoiono i figli, crolla la casa, gli sopravvive la moglie…
Ebbene da Giobbe vanno tre amici, tre persone pie, le persone più pericolose
da incontrare nei momenti di difficoltà, e lo vanno a confortare. E sapete
cosa dice Giobbe?
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Ho avuto tante disgrazie, ma mai grande come questa di voi che siete venuti
a confortarmi, perché anch’io se fossi al vostro posto saprei usare le vostre
parole.
Gesù non parla di un’afflizione qualunque, non parla di una tristezza
qualunque, ma l’evangelista prende questa espressione dal libro di Isaia al
cap. 61, dove si dichiara che il giorno della venuta del Messia sarà per
consolare tutti gli afflitti.
Allora questa beatitudine di Gesù (“beati gli afflitti”) si rivolge ad una
categoria particolare di afflitti e di oppressi. Qui non si parla di una
qualunque afflizione, un rapporto difficile con un’altra persona o una
situazione dolorosa; gli afflitti di cui parla Isaia è il popolo che è oppresso
da due realtà che non fanno che peggiorare la sua situazione:
1. esternamente una dominazione pagana
2. e internamente l’oppressione dei capi religiosi
Fanno si che il popolo sia in una situazione di afflizione e oppressione che
non può far a meno di gridare la propria disperazione. Tanto vero che nel
vangelo di Luca questa beatitudine ha il termine “
beati coloro che piangono”:
non sono le persone depresse, sono persone che sono talmente schiacciate
da una situazione ingiusta politica, economica e sociale che non possono non
gridare tutta la loro disperazione.
Allora Gesù non proclama beati gli afflitti, dice gli afflitti, quelli che vivono
questa situazione, quelli che la società ha schiacciato dal punto di vista
economico, politico, sociale, religioso, queste persone che sono talmente
schiacciate, non sono beati perché sono afflitti (la beatitudine non si
riferisce mai alla condizione, è sempre nel secondo termine), ma coloro che
vivono questa condizione di afflizione beate perché – e l’evangelista, grande
teologo e letterato, usa attentamente i termini per le sue beatitudini, non
adopera il verbo confortare (
™niscÚw), ma il verbo consolare (parakalšw)
che significa l’eliminazione alla radice della causa della sofferenza
.
Tutte queste beatitudini sono condizionate dalla prima; se c’è un gruppo di
persone, una comunità che incomincia a prendersi cura di coloro dei quali
nessuno si occupa, quelle persone che soffrono al punto di dover gridare per
tutta la loro disperazione, beati perché grazie a questa comunità che si
prenderà cura di loro vedranno la fine delle loro afflizioni.
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Quindi non è un messaggio alienante, un messaggio spiritualizzante, un
messaggio che rimanda alla consolazione nell’aldilà, ma un messaggio
immediato. C’è tanta gente che è disperata che grida nella disperazione, e
attende il nostro impegno, e noi dobbiamo essere coloro che mettono la
parola fine alla loro sofferenza. Quindi gli afflitti, beati perché vedranno la
fine della loro afflizione.
Adesso c’è una beatitudine della quale non si capisce il rapporto tra la
situazione di sofferenza e la promessa di liberazione.
Abbiamo visto che nelle beatitudini c’è una situazione negativa con una
promessa di una soluzione, quindi coloro che scelgono di essere poveri, le
conseguenze negative di questa scelta verranno eliminate perché Dio è il
loro re, quindi ai poveri è promesso il regno.
Abbiamo visto che gli afflitti saranno consolati, poi vedremo che gli
affamati saranno saziati, e qui non si capisce perché questa beatitudine è:
“Beati i miti perché erediteranno la terra”.
o la traduzione letterale “Beati i
miti perché questi erediteranno la terra
”
Cosa c’entra la terra con la mitezza non si capisce. Quindi è chiaro, nelle
altre beatitudini abbiamo la situazione negativa con la promessa di una
liberazione positiva, ma qui non si capisce. Nel passato, e quando critico il
passato non è tanto una critica per una malafede del passato, non avevano gli
strumenti. Sapete che fino a praticamente 40 anni fa non c’era ancora il
testo integrale del NT greco. È stato con il Concilio Vaticano II che la
chiesa cattolica è tornata al testo greco; pensate che la prima edizione del
testo greco del NT è del 1975, cioè l’altro ieri. Non c’erano le possibilità di
queste conoscenze profonde del vangelo. Allora in passato non
comprendendo questa beatitudine, la terra era stata trasfigurata nell’aldilà,
con la mania del paradiso, e i miti erano i sottomessi, gli obbedienti
soprattutto all’autorità ecclesiastica.
Ma torniamo a Matteo che anche in questo caso si rifà alla storia di Israele,
e sta citando il salmo 37,11.
Nella storia di Israele si era verificato che quando il popolo era entrato
nella terra di Canaan, la terra fu divisa secondo le tribù e ogni tribù la divise
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secondo i clan, i clan divisero la terra secondo le famiglie in modo che ogni
famiglia avesse un pezzo di terra.
La terra è importante in oriente; un uomo senza terra è un uomo senza
dignità - e questo fa comprendere anche quando i palestinesi si vedono
confiscati la terra - non è solo un appezzamento di terra, ma la vita, la
dignità perché, se un uomo ha terra, lavora e quindi può nutrire e mantenere
bene la propria famiglia; se non ha terra, nulla di tutto questo accade. Il
possesso della terra è importante in quella società.
Ma dopo la divisione è successo che nel giro di 2 o 3 generazioni i più
prepotenti, i più bravi, i più astuti, i più disonesti si impossessarono della
terra delle persone meno capaci, delle persone meno furbe e delle persone
più deboli. Il risultato fu che gran parte della terra fu posseduta da
pochissime famiglie e la gran parte della gente era costretta ad andare a
lavorare come bracciante nella terra che era stata di loro proprietà. Una
situazione di totale ingiustizia, ed allora queste persone che erano state
espropriate della loro terra protestavano e per calmarli, sempre le persone
pie (attenti alle persone pie! Evitatele nei momenti difficili, sono sempre le
persone più pericolose) arrivano a dire con il salmo 37 che fa tutto un
panegirico e dice: no, non prendetevela con i ricchi perché non sapete quanto
soffrono poveri ricchi; voi state buoni, state calmi e tranquilli (ecco la
religione oppio dei popoli!) perché erediterete un terreno; cioè state buoni,
lasciate fare a Dio che Lui distribuirà secondo giustizia e vedrete questi
ricchi quanto soffriranno e a voi sarà dato un terreno.
Quando? Ah, questo non si sa, lasciamolo fare a Dio, e la situazione rimase
invariata.
Questo il salmo 37.
Allora questi “miti” non indica una qualità morale dell’individuo, ma una
situazione sociale disperata; è la stessa differenza che c’è tra l’umile e
l’umiliato: qui non si tratta di umili, ma si tratta di umiliati. Per una migliore
comprensione di questa beatitudine potremmo tradurla con “i diseredati”,
quelli che hanno perso tutto, può darsi per colpa propria, per incapacità.
Ma Gesù dice, i diseredati, quelli che sono stati espropriati di tutto,
compresa la dignità, ebbene beati perché erediteranno la terra (e l’articolo
determinativo significa la totalità).
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E si ritorna alla prima beatitudine: se c’è una comunità di persone che si
impegna a sentirsi responsabile della felicità degli infelici di questo mondo, i
diseredati, quelli che hanno perso tutto, hanno perso l’onore, hanno perso la
dignità umana, non sanno neanche più cosa significa essere una persona
dignitosa, questi nella comunità ritroveranno non un terreno, un po’ di
dignità, ma la terra, la totalità; cioè nell’ambito della comunità delle
beatitudini, i diseredati ritroveranno una dignità che non avevano mai
conosciuto nella vita, neanche prima di perderla, perché vengono trattati con
amore verranno trattati con una devozione che non avevano mai
sperimentato.
Vedete che non sono beatitudini alienanti, ma beatitudini che coinvolgono, ci
sono i diseredati del mondo e, purtroppo da quando sono state pronunciate le
beatitudini, continuano ad esserci.
È compito della comunità cristiana che a queste persone che vivono senza
alcuna dignità, venga fatta ritrovare non una briciola di vita, ma la pienezza
della vita.
Le beatitudini degli afflitti e dei diseredati vengono poi riassunte
dall’evangelista in una terza beatitudine. C’è tutto uno schema con il quale
l’evangelista costruisce le beatitudini, e la successiva è:
“Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati”, o
letteralmente
“Beati gli affamati e assetati della giustizia, perché questi
saranno saziati”
.
L’evangelista ha presentato 2 situazioni di ingiustizia (gli afflitti, e i
diseredati), e le riassume in una terza beatitudine.
Quelli che ne fanno una questione vitale di riportare dignità a chi dignità non
ce l’ha, quelli che fanno una questione vitale di liberare dall’oppressione gli
oppressi, ebbene questi - assicura Gesù - in questa comunità (perché tutto
dipende dalla prima beatitudine) in una comunità di gente che ha rinunciato
all’ambizione, dall’avere di più, dall’arricchire, dall’essere di più degli altri ed
ha capito che
la felicità non consiste in quello che si ha, ma in quello che
si dà,
saranno felici qui pienamente su questa terra.
E ce lo dice pure, oltre la beatitudine, una frase di Gesù negli Atti degli
Apostoli, che purtroppo è sempre stata trasmessa senza il risalto che
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merita. Gesù dice: “
c’è più gioia nel dare che nel ricevere”, ecco qui la
felicità.
Molti non sono felici perché pensano che la felicità consiste in ciò che gli
altri devono fare per noi. Allora rimani sempre deluso perché gli altri non
possono sapere ciò che lui aspetta, ciò che lui desidera e ciò che lui spera.
Chi pensa che la sua felicità dipenda da quello che gli altri devono fare per
lui rimane sempre deluso.
Allora
Gesù dice: no, la felicità non consiste in ciò che gli altri faranno
per te, in ciò che riceverai, ma in ciò che tu donerai.
Allora la felicità è
piena immediata e totale, la felicità consiste in ciò che si fa per gli altri; se
io non so quello che gli altri possono fare per me, so ciò che io posso fare
per gli altri.
Quindi l’invito di Gesù è per la pienezza della felicità, e se c’è una comunità
che si occupa della felicità degli altri, in questa comunità quelli che fanno
una questione vitale fame e sete di questa giustizia, saranno pienamente
saziati (e qui bisognerebbe tradurre con un verbo italiano ormai un po’ in
disuso, perché il termine che usa l’evangelista è il verbo
cort£zw che si usa
per gli animali che mangiano sino a scoppiare, e si potrebbe dire satolli): cioè
gli affamati e gli assetati, saranno saziati sino a scoppiare.
Ed è importante che questo verbo, essere satolli, essere sazi, l’evangelista lo
riporta in un episodio importante: quello della condivisione dei pani e dei
pesci dove quelli che mangiarono furono satolli (Mt 14,20). L’evangelista con
questa tecnica letteraria (adoperando questo verbo solo in questi due
episodi) ci fa comprendere
che si sazia la propria fame e sete di
giustizia, saziando la fame fisica degli altri
, ma sopratutto Gesù
garantisce che all’interno della sua comunità non ci sarà nessuna forma di
ingiustizia, ogni forma di ingiustizia sarà messa fuori dalla porta.
E per questo Gesù prenderà delle precauzioni purtroppo inascoltate.
Gesù dirà ai suoi: attenzione! Non fatevi chiamare da nessuno padre, perchè
l’unico Padre è quello nei cieli; non fatevi chiamare da nessuno maestro
perché l’unico maestro sono io.
Piccola nota: sapete che nel mondo religioso l’addetto alla formazione dei
novizi si chiama padre maestro…
E’ pazzesco, come se Gesù non avesse mai parlato!
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Quindi Gesù, per evitare ranghi e gerarchie all’interno della sua comunità, ha
preso queste precauzioni. Gesù ci assicura che quelli che fanno una questione
vitale di queste forme di giustizia (se c’è una comunità che ha fatto queste
scelte) beati perché saranno pienamente saziati.
E dopo aver presentato le situazioni negative dell’umanità, l’evangelista
presenta gli effetti positivi all’interno della comunità negli individui che
hanno fatto questa scelta.
Ricordate che Matteo scrive sul modello delle opere di Mosè che, dopo aver
annunziato i comandamenti, proclama una specie di credo di accettazione di
questi comandamenti, che in ebraico si chiama lo “shemà Israel” (ascolta
Israele).
Ebbene, Matteo fa lo stesso: dopo la proclamazione delle beatitudini,
presenta il Padre Nostro.
Il Padre Nostro non è una preghiera, ma è la formula, sotto forma di
preghiera dell’accettazione delle beatitudini, tanto è vero che a ogni
beatitudine corrisponde una richiesta del Padre Nostro.
E come nel Padre Nostro le prime richieste riguardano l’umanità, il regno e
dopo le altre richieste riguardano la comunità, ugualmente si ha qui nelle
beatitudini.
Quindi
•
nella prima parte delle beatitudini abbiamo visto situazioni di
sofferenza dell’umanità che è compito della comunità cristiana
eliminare;
•
ora si passa a vedere gli effetti all’interno della comunità.
E la prima della seconda parte è
:
“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia
.” e letteralmente
“Beati i misericordiosi, perché questi riceveranno misericordia”
.
Attenzione, perché le beatitudini che esamineremo adesso non riguardano
categorie differenti di persone: i misericordiosi, i puri di cuori, i costruttori
di pace.
Non sono categorie diverse, sono tutti effetti che avvengono nell’individuo e
nella comunità che hanno accolto la prima beatitudine; quindi chi sceglie la
21
prima beatitudine e liberamente sceglie di entrare nella condizione di
povertà per permettere ai poveri di uscirne, chi si rende responsabile della
felicità degli altri, questi individui sono a loro volta tutti quanti
misericordiosi, puri di cuore, costruttori di pace.
Quelle che l’evangelista enumera, non sono qualità degli individui, ma
caratteristiche che diventano riconoscibili.
Allora la prima caratteristica è i misericordiosi.
Misericordioso (
™le»mwn) non significa uno che è di sentimento
misericordioso
, ma uno che opera attivamente per aiutare gli altri.
La misericordia non è un sentimento, ma una azione concreta con la quale si
aiutano gli altri ad uscire da una situazione di difficoltà.
Allora Gesù assicura: i misericordiosi - che non è una qualità dell’individuo,
ma una caratteristica che li rende sempre riconoscibili - sono persone sulle
quali si può sempre contare; quindi non è un gesto di carità una volta tanto,
ma è il gesto abituale che lo rende riconoscibile; io so che quella persona è
sempre pronta sempre disponibile ad aiutare.
Allora Gesù dice: i misericordiosi, quelli sempre pronti ad aiutare, beati
perché troveranno misericordia, cioè ogniqualvolta si troveranno loro nella
situazione di difficoltà, di necessità, troveranno aiuto da parte di Dio da
parte della comunità.
Ecco il cambio che si diceva all’inizio: se noi ci sentiamo responsabili della
felicità degli altri, permettiamo a Dio di esserlo della nostra; è un cambio
meraviglioso.
Perché per quanto noi possiamo occuparci della nostra persona, della nostra
felicità, noi non ci conosciamo come ci conosce Dio. Gesù ha detto che
conosce anche i capelli che sono nel nostro capo; quindi l’azione di aiuto di
Dio, supererà sempre la nostra azione di aiuto agli altri e soprattutto darà
sempre molto di più.
C’è nel vangelo di Marco un’immagine molto bella che spesso non compresa
nel lessico, nel linguaggio dell’epoca, viene interpretata erroneamente.
Conoscete quando Gesù dice: “
la misura con la quale misurate sarete misurati
e vi verrà dato in aggiunta”
?
Che cosa è questa misura?
22
Nei negozi alimentari (fino a 30-40 anni fa), i prodotti erano venduti sfusi,
non erano impachettati, confezionati. Si chiedeva 1 centimetro di olio, 2 etti
di farina,.. e per quantificare questi alimenti c’erano dei contenitori chiamati
misure. C’era il contenitore che riempito corrispondeva a 500 grammi di
farina, questa era la misura. E Gesù sta parlando di cose che tutti capivano,
e ci assicura che la misura che voi misurate, vi viene data, quindi ciò che noi
diamo agli altri, quello non è una perdita, perché quello ci viene ridato, ma
Dio regala vita a chi produce vita, Dio non si lascia vincere in generosità, la
misura che misurate sarete misurati, ma vi verrà data qualcosa in aggiunta.
Se io dò 100, non mi viene restituito semplicemente 100, ma 130. Ed io
questo 130 non lo tengo per me, ma lo dono e mi viene restituito 180: cioè
l’amore è la garanzia della crescita dell’individuo, più ci si dona agli altri e più
si cresce dentro. Ecco perché Gesù ha detto quella espressione che, così
come è tradotta ed interpretata, dà modo ad una interpellanza sindacale:
a
chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha
. Sembra di
un’ingiustizia pazzesca.
Il verbo avere è un verbo risultativo, perché quando io dico io ho, è sempre il
risultato di un’azione. Ho questa giacca che mi è stata regalata, ho questo
libro perché mi è stato comprato; allora lì Gesù, quando dichiara “a chi ha
sarà dato”, è dopo tutta la narrazione della parabola dei 4 terreni, vi è un
seme che è capace di produrre e fruttificare.
Allora il significato è questo: a chi produce sarà data capacità di produrre
ancora di più. Chi ha colto il messaggio di Gesù, lo traduce in atteggiamenti
pratici, più si dona agli altri e più gli viene data capacità di dare.
Chi invece non si dà agli altri, chi non produce rende sterile la propria
capacità di amare, e quando arriva il momento che ne ha bisogno, non ne è
capace.
Se io mi alleno quotidianamente a superare gli inevitabili screzi che la vita
comune, la vita famigliare, la vita sociale, comporta, quando arriverà il
momento del torto, dell’offesa, sarò capace a perdonare perché mi sono
allenato. Ma se io mi lego al dito tutti gli screzi, tutte le offese, quando
arrivo al momento grosso del torto, ne sarò incapace. A chi ha sarà dato, a
chi produce amore sarà data ancora più grande capacità di amare, e a chi non
ha sarà tolta anche quella capacità.
23
Gesù ci assicura, e per questo dico che cambia la vita, se voi siete conosciuti
abitualmente come persone sulle quali gli altri possono sempre contare
perché sanno che quando ricorrono a voi, voi siete sempre pronti a dare una
mano, pronti a dire di si, beati perché quando voi avrete bisogno sarà Dio
stesso ad intervenire con molto di più di quanto voi avete potuto fare e dare
agli altri.
L’altra beatitudine, la più male interpretata in passato è:
“Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”
e letteralmente “Beati i puri di
cuore, perché questi vedranno Dio”.
In passato la purezza non era nel cuore, ma nei genitali. Era una generazione
ossessionata dalla purezza, una generazione che anche nei gabinetti eravamo
seguiti da quel triangolo con l’occhio che Dio ti vede. E la purezza era
sempre per quella parte lì, ossessionati dai genitali, e questo ha fatto
perdere di vista la ricchezza di questa beatitudine.
Gesù non sta parlando di purezza a livello genitale, a livello sessuale.
Il cuore nel mondo ebraico non ha lo stesso significato che ha nella nostra
cultura occidentale; il cuore non è la sede dell’affetto dell’amore, ma il cuore
è l’equivalente della nostra mente, della nostra coscienza: quando nel vangelo
si parla di duri di cuore, non si intendono persone crudeli, ma persone
ostinate, persone resistenti.
Allora Gesù sta parlando dei puri di cuore, quelli cioè che sono limpidi nella
propria coscienza, nel proprio intimo, e afferma che questi personaggi
limpidi, trasparenti vedranno Dio.
Anche qui l’evangelista - vedete come è tutto un richiamo all’AT? - si
riferisce al salmo 24,4 che metteva la purezza di cuore come una condizione
per salire al tempio e partecipare alla liturgia.
Gesù parla di persone limpide, ma anche questo non è una qualità
dell’individuo, ma un atteggiamento che lo rende riconoscibile; e quando una
persona ha scelto la prima beatitudine, cioè di non arricchire, ma di
condividere con gli altri, di rinunciare all’ambizione dell’avere di più,
dell’essere di più, finalmente diventa una persona vera, una persona
autentica, cioè una persona trasparente.
24
Allora Gesù assicura: le persone limpide, le persone vere, le persone
trasparenti, cioè quelli che hanno nel cuore, nel nostro cuore, hanno anche
nella lingua, le persone che non sono doppie, le persone che non si presentano
con la maschera, beate perché vedranno Dio.
Ma attenzione che Gesù non assicura le visioni, (attenti alle visioni e ai
visionari perché ce n’è una inflazione…): se vi capita di avere una visione
misuratevi la pressione o prendete altri provvedimenti!
Qui Gesù assicura che vedranno Dio, ma non nell’aldilà, perché nell’aldilà Dio
lo vedranno tutti, anche le persone che non sono state pure di cuore. Gesù
assicura una visione qui, su questa terra.
Il verbo greco vedere si scrive in 2 modi:
1. uno (
blšpw) indica la vista fisica,
2. e l’altro (
Ðr£w) indica la percezione interiore, una profonda esperienza
interiore.
Noi usiamo invece lo stesso verbo per dire 2 cose diverse:
1. quando parlo con una persona e vedo che quello che le dico non lo
capisce, le dico: “ma non vedi che…”;
2. oppure, per richiamare l’attenzione, quante volte diciamo: “guarda
che…;
invece in greco ci sono 2 verbi.
E qui l’evangelista non scrive che avranno delle visioni di Dio, ma Gesù
assicura che chi fa la scelta della prima beatitudine sarà una persona
limpida, trasparente, e siccome è trasparente con gli altri, Dio sarà
trasparente con lui, e questo si accorgerà della presenza di Dio nella sua
esistenza come un padre tenero che si prende cura anche degli aspetti
minimi, insignificanti della sua vita.
La vita cambia, noi crediamo che Dio c’è, ma quando lo sperimentiamo?
Quando ne facciamo esperienza? Dio c’è, ma dov’è?
Ebbene Gesù ci assicura: se voi scegliete questa prima beatitudine e
diventate persone limpide, trasparenti, vi accorgerete quotidianamente della
presenza di Dio anche negli aspetti minimi, insignificanti della vostra
esistenza. Un Dio di una tenerezza che tutto trasforma in bene, un Dio che
si mette a vostro servizio, un Dio che sempre vi è accanto.
25
E siamo alla beatitudine che era un po’ al centro dell’incontro, ma avete visto
che sono tutte legate una all’altra e non è possibile prenderne una a scapito
delle altre:
“
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”
letteralmente “
Beati i pacificatori, perché questi saranno chiamati figli di
Dio
“.
Anzitutto i termini.
Gesù non proclama beati i pacifici, ma i pacificatori, i costruttori di pace
(
e„rhnopoio…).
Qual è la differenza?
•
Il pacifico è una qualità dell’individuo, è colui che tiene tanto alla sua
pace che evita accuratamente ogni situazione di conflitto.
•
Il pacificatore è un individuo che per la pace degli altri, crea situazioni
conflittuali, i costruttori di pace sono dei gran rompiscatole, perché
per la pace degli altri sono pronti a perdere la propria.
Ma vediamo chi sono questi personaggi.
Costruttori di pace: anche qui l’evangelista non indica una qualità
dell’individuo, ma una attività che rende pienamente riconoscibili.
La parola pace la conosciamo dall’ebraico “shalom”, è molto più ricca del
nostro termine pace: pace significa tutto quello che concorre alla piena
felicità degli uomini. Quindi vedete ancora una volta che il progetto di Dio è
che gli uomini siano felici.
Se sottolineo questo è che purtroppo sapeste quante volte la gente associa
più facilmente Dio all’infelicità che alla felicità; non solo, ma sapete che ci
sono tante persone che non vivono serenamente neanche quei periodi di
tranquillità e di felicità che la vita offre, perché se se ne accorge il Padre
eterno!!.
Tanto è vero che nel linguaggio popolare quando nella vita capita qualcosa di
inevitabile, si dice: lo sentivo che doveva succedere qualcosa, andava tutto
troppo bene!
E questa è l’immagine pagana della divinità, degli dei che quando si
accorgevano che qualcuno raggiungeva una soglia di felicità che a loro
sembrava intollerabile, ecco che gli davano una mazzata.
26
Molte persone la parola “felicità” hanno paura di pronunciarla perché sembra
che non sia possibile associata a Dio, tanto è vero che siamo tutti eredi della
famosa “valle di lacrime”, la piscina spirituale dove le pie persone sguazzano
piamente e devotamente.
Non è questo il messaggio di Gesù: egli ci invita alla pienezza della felicità
qui, è possibile essere felici qui.
Sottolineo questo perché nei contatti con le persone, per la deformazione
spiritualizzante che c’è stata in passato, molte persone credono che essere
felici, essere gratificati, non sia corrispondente alla volontà divina.
Sapete quante persone brave che fanno volontariato, che si dedicano agli
altri, entrano in crisi perché dicono: “ma io però non faccio un sacrificio, lo
faccio volentieri, mi fa piacere aiutare gli altri, sarà meritorio? Sarà
valido?”
Io do sempre un consiglio: “mettiti un paio di scarpe più strette e così soffri
e vedrai che la tua azione sarà meritoria….”
Perché sembra che se uno non si sacrifica, se uno non soffre, questo non sia
accetto agli occhi del Signore. La persona felice sembra che non sia in
sintonia con Dio. Basta guardare l’iconografia del passato, guardate i santi,
che allegria che facce particolari che hanno!
Avete mai visto un santo felice? Un santo sorridente è raro, sono sempre
mesti. E’ volontà di Dio che su questa terra si realizzi la felicità e Gesù ci
chiede di collaborare alla creazione di Dio.
Vedete, nella teologia giudaica si credeva e si insegnava che Dio aveva
lavorato per 6 giorni e il settimo si era riposato, aveva creato il mondo,
l’universo, poi gli uomini lo avevano guastato, ma Dio aveva lavorato.
Gesù non è d’accordo: quando gli rimproverano di non osservare il sabato, nel
vangelo di Giovanni Gesù risponde:
il Padre mio lavora e anche io lavoro, la
creazione non è terminata.
La narrazione che troviamo nel libro del Genesi di quella armonia tra
l’uomo e la donna, tra l’uomo e il creato, non è un rimpianto di un
paradiso perduto, ma la profezia di un paradiso da realizzare.
Quindi non c’è da rimpiangere un paradiso perduto, ma da rimboccarci le
maniche per realizzare questo paradiso.
27
Ecco perchè Paolo nella lettera ai Romani ha un grido: “
l’umanità, la creazione
geme nell’attesa che diventiate figli di Dio”
.
Questa è la volontà di Dio, che noi diventiamo collaboratori della sua
creazione; questo significa essere costruttori di pace.
Ecco perché in questa beatitudine c’è l’equivalente: perché questi saranno
chiamati figli di Dio.
Figli di Dio nel mondo ebraico ha 2 significati:
1. il primo di assomigliante (figlio di Dio significa che assomiglia a Dio)
2. il secondo di protezione da parte di Dio.
Ebbene Gesù assicura: quelli che costruiscono la pace, cioè quelli che
lavorano per la felicità, per la dignità e la libertà degli uomini, beati perché
prima di tutto assomigliano a Dio.
Se assomigliano a Dio significa che fanno lo stesso lavoro di Dio. E poi beati
perché avranno Dio dalla parte loro. Dio sta dalla parte non di chi toglie la
felicità, ma di chi la costruisce, non di chi toglie la dignità, ma di chi
restituisce la dignità agli uomini, cioè Gesù ci invita a collaborare alla
creazione.
Vedete c’è un’espressione nel NT che però con il nostro limite traduciamo
tutto con la nostra mentalità occidentale e non secondo i criteri orientali.
Quando Paolo, o anche in altri passi si parla che noi siamo stati scelti per
essere figli adottivi di Dio, noi abbiamo la nostra immagine occidentale in cui
l’adozione è quel un gesto d’amore con il quale si prende un bambino nel seno
di una famiglia; ma il significato teologico di essere figli di Dio, figli adottivi
di Dio è molto più ricco.
A quell’epoca si usava così: quando un re o un imperatore vedeva la sua vita
ormai alla fine, non lasciava il suo regno il suo impero ad un figlio suo
naturale, ma sceglieva tra i propri generali, tra i propri ufficiali la persona
che gli sembrava più adatta, la più capace di continuare come lui il suo
impero, e lo adottava come figlio.
È questa l’adozione a figli, cioè un Dio talmente innamorato degli uomini, un
Dio che ha talmente stima di noi che ci chiede di essere suoi figli adottivi,
cioè di collaborare con Lui e come Lui alla creazione del mondo, a costruire la
pace.
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È inevitabile che per costruire la pace, bisogna toglierla a quelli che sono i
nemici della pace, quando si lavora per favorire la vita degli oppressi, bisogna
disturbare un po’ la vita degli oppressori.
Abbiamo visto che queste beatitudini sono tutte quante al futuro, e sono
possibili condizioni se esiste la prima beatitudine, ma poi arriva l’ultima
beatitudine che ha di nuovo il verbo al presente, esattamente come la prima:
“Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei
cieli”.
Vedete che la seconda parte della prima e dell’ultima beatitudine sono
identiche, uno non si aspettava questa doccia fredda. Dopo tutto questo
elenco di beatitudini uno si aspetterebbe quasi l’applauso della gente.
Invece Gesù è molto chiaro: quelli che sono fedeli a tutto questo programma,
(la giustizia significa colui che è fedele), quelli che sono fedeli alle
beatitudini, non si aspettino l’applauso, non si aspettino il riconoscimento
dalla società né civile, né religiosa, ma si aspettino la persecuzione.
Quello che è grave è che il verbo “perseguitare” adoperato dall’evangelista
(
dièkw) è un verbo che indica la persecuzione in nome di Dio, la più terribile,
perché non viene da nemici esterni viene proprio da quelli sui quali credevi di
contare, quelli avrebbero dovuto collaborare con te.
Gesù parla di questo perché chi accoglie le beatitudini entra in sintonia con
Dio, vede Dio, cioè lo sente presente nella propria vita ed ha bisogno di
manifestarlo sempre in forme nuove.
Allora accade che proprio all’interno della comunità cristiana ci sia una parte
invece che si è fermata e che anziché la proposta di Gesù di creare una
comunità dinamica animata dallo spirito si è degradata ad una istituzione
immobile regolata dalle leggi: allora questi non sopporteranno la presenza dei
profeti all’interno della comunità e la perseguiteranno.
Ecco perché Gesù dirà: “Gerusalemme, la città santa, Gerusalemme, sei una
città assassina, tutti gli inviati, i profeti che Dio ti ha mandato, li hai tutti
quanti assassinati”.
Allora l’ultima beatitudine, Gesù assicura, quelli che sono fedeli a questo
programma verranno perseguitati in nome di Dio. Quelli che vi avrebbero
dovuto aiutare saranno quelli che vi daranno contro.
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Gesù dirà nel vangelo di Giovanni: “verrà il momento in cui chiunque vi uccide
crederà di rendere culto a Dio”.
Sapete che mai si ammazza con tanto gusto, come quando si ammazza in
nome di Dio, quindi in nome di Dio vi perseguiteranno, ma, beati perché Dio
sta dalla parte vostra: la persecuzione per il credente, per la comunità
cristiana non sarà un segno di sconfitta, ma un fattore di crescita.
Nella parabola dei 4 terreni Gesù parla del chicco che cade in un terreno
pietroso e mette radici, spunta, ma poi viene il sole e lo brucia perché le
radici non erano andate in profondità.
L’azione del sole per la pianta è fondamentale, necessaria, vitale; se la pianta
si brucia non è colpa del sole, è colpa della pianta che non ha messo radici, e
Gesù, dandone la spiegazione, parla di quelli entusiasti che accolgono il suo
messaggio, ma poi quando arriva la persecuzione crollano.
La persecuzione è un fattore di crescita per la comunità, è come l’azione del
sole sulla pianta, la irrobustisce e la fa crescere; questo non significa che
bisogna andare in cerca delle persecuzioni, ce ne sono già abbastanza per
conto suo; ma Gesù ci assicura che vivere così comporterà la persecuzione,
ma Dio tra chi perseguita e chi viene perseguitato, sta sempre dalla parte
del perseguitato. Tra chi condanna in nome di Dio e i condannati, Dio sta
sempre dalla parte dei condannati, tra chi accende il rogo e chi viene
arrostito, Gesù, Dio sta sempre dalla parte degli arrostiti. E forse la tragica
storia della nostra chiesa, non è che non ha saputo riconoscere i santi, i
profeti, gli inviati da Dio, li ha subito individuati e, quando è stato possibile li
ha eliminati. Ma poi la storia passa e quelli che sono stati sacrificati, quelli
che sono stati umiliati passano ad essere i veri testimoni del Signore.
Prendo per esempio un personaggio che mi sta particolarmente caro e che
conoscete tutti, questa donna straordinaria che è stata Teresa di Avila.
Era entrata tra le monache di clausura, ma lei era la donna delle beatitudini,
cioè in sintonia con Dio, sentiva insufficienti i mezzi, gli strumenti che la
regola le dava ed aveva bisogno, proprio perché era in sintonia con Dio, di
agire in una forma nuova. Ebbene il vescovo scrive al santo uffizio queste
testuali parole: “ho qui nella mia diocesi una monaca che è femmina inquieta e
vagabonda”. È un autoritratto bellissimo, la monaca femmina inquieta e
30
vagabonda, la chiesa, dopo un po’ di tempo l’ha riconosciuta dottore della
chiesa, invece del vescovo se ne è persa la memoria.
Ma aveva ragione, povero cristo: o Teresa mia, sono secoli che le monache
diventano sante con queste regole, che bisogno c’è di modificarle, di
cambiarle?
Ecco gli uomini delle beatitudini, i costruttori di pace, quelli che sono in
sintonia con Dio, trovano i mezzi dei loro contemporanei, sempre
insufficienti e avranno bisogno di crearne sempre nuovi perché la comunità
voluta da Gesù è una comunità dinamica animata dallo Spirito. Il rischio è
che si degradi in rigida istituzione regolata dalla legge e quindi refrattaria
all’azione dello Spirito.
Come facciamo a sapere se siamo nella dinamica comunità animata dallo
Spirito, quella delle beatitudini, o nella rigida istituzione immobile regolata
dalle leggi?
C’è una frase che è un segnale di allarme: quando di fronte ad una proposta
nuova, quando di fronte ad una novità diciamo, sentiamo dire: “ma perché
cambiare? Si è sempre fatto così”, attenzione perché siamo dalla parte
della legge e non dello Spirito, rischiamo di passare ad essere persecutori
anziché perseguitati. Vi ringrazio.
Interventi
Domanda:
Quanto ci vorrà perché nelle nostre chiese, nei nostri seminari si
insegni il vangelo secondo quello che è veramente, cioè con i testi originali?
A. Maggi
. Il primo lavoro da fare è la traduzione, perché il testo greco non
è accessibile naturalmente ai più, quindi il primo passo da fare è la
traduzione. Venne fatta una prima traduzione, ma inesatta, imperfetta,
ricca di errori: è quella che conosciamo come la Bibbia CEI o meglio la Bibbia
di Gerusalemme, ma la stessa commissione episcopale italiana finalmente si è
resa conto che non era una traduzione esatta e nel 1997 ha pubblicato la
nuova traduzione, per adesso solo del NT, e in corso, quasi finito c’è l’AT.
31
Ed è molto importante perché, vedete, la spiritualità, la teologia si fa sul
testo del vangelo. Se questo testo è tradotto male, tutta la nostra esistenza
ne avrà dei danni.
Pensate soltanto all’invito di Gesù: “
se non vi convertite non entrate nel
regno dei cieli
”, l’invito a convertirsi significa orientare diversamente la
propria esistenza, cioè se non la smettete di pensare soltanto a voi stessi e
non vi decidete di orientarvi verso gli altri, mettendo il bene degli altri al
primo posto, non avete nulla a che fare con me.
Ebbene in passato, nella traduzione latina, ed in quelle italiane, l’invito a
convertirsi era tradotto “
se non fate penitenza”.
Ecco perché quando leggiamo la vita dei santi vediamo che si sacrificavano,
che facevano penitenze, perché il vangelo che avevano loro c’era scritto ”
se
non fate penitenza
”, allora pensavano che più si soffriva e più si meritava di
entrare nel regno dei cieli.
Bene, questa nuova traduzione del 1997, ha fatto finalmente delle scelte
coraggiose nella traduzione, più aderenti al testo greco.
Finalmente per esempio, è scomparsa quella parola che ha creato sempre
tanti problemi nella fede, nella persona, la parola
miracolo; perché se c’è
scritto miracolo, la gente si aspetta miracoli.
Gli evangelisti, il termine greco che significa miracolo non lo adoperano mai,
le azioni di Gesù non vengono mai qualificate come miracoli, ma sempre come
segni, opere e prodigi, perché sono
segni, opere, prodigi che è compito
della comunità cristiana continuare a fare e addirittura arricchire
. E
Gesù stesso dice, “
le opere che io compio, voi ne compierete di più grandi”, e
questo è importante perché altrimenti di fronte a certe azioni di Gesù se noi
pensiamo al miracolo, non arriviamo mai.. se invece parliamo di un segno, è un
invito che noi possiamo fare.
Esempio, la cosiddetta moltiplicazione dei pani e dei pesci, chi lo può fare?
Soltanto una persona prodigiosa o un prestigiatore, ma nessuno di noi, anche
se Gesù dice che se voi aveste fede come un chicco di senape, quello che io
faccio lo farete molto di più.
Vogliamo fare la prova stasera?
32
Chiediamo che portino qui 5 pani e 2 pesci, preghiamo tutta la notte,
qualcuno con un po’ di fede ci sarà, ed io vi assicuro che domani mattina il
pesce puzza ed il pane è secco.
Allora c’è qualcosa che non va, se invece giustamente interpreto questo
episodio come un segno che Gesù ha fatto e che noi dobbiamo fare, capisco
che non si tratta di fare un gesto da prestigiatore, volete pesce mangiate,
volete il bis, ma l’invito in quel brano del vangelo è,
se uno trattiene per se,
crea la fame, quando ci decidiamo a condividere cioè a mettere insieme
quello che abbiamo, si crea l’abbondanza
.
Allora questo si che lo possiamo fare; quindi tutte le azioni compiute da Gesù
vengono qualificate come segni opere, prodigi, ed è quindi scomparsa la
parola miracolo.
Prima si è parlato della finale del vangelo di Matteo, nella vecchia traduzione
CEI, e adesso corretto nella nuova, le ultime parole di Gesù erano: “
ecco io
sono con voi fino alla fine del mondo
”, quindi questo spauracchio di una fine
del mondo.
Mai Gesù parla di una fine del mondo, Gesù non indica una scadenza, ma dà
una qualità, “
io sono con voi per sempre”.
Quindi c’è una nuova traduzione, molto bella, alcune correzioni erano già
state fatte nelle edizioni precedenti.
Per esempio, quanti danni ha fatto nella spiritualità l’invito degli angeli alla
nascita di Gesù, “gloria a Dio nell’alto dei cieli”.
Ricordate come era tradotto? “
e pace in terra” a chi? A quelli che se lo
meritano,
gli uomini di buona volontà.”
Era la categoria religiosa del merito, ma il testo se oggi lo andate a vedere,
è “
agli uomini amati dal Signore”.
Come finalmente è scomparso quell’inesatta traduzione del regno dei morti
con l’
inferno; questa immagine dantesca di questo luogo di condanne.
Mai Gesù parla di inferno
perché è una realtà sconosciuta, parla del regno
dei morti, dove i morti vanno a finire.
Allora è compito delle comunità, della chiesa, elaborare queste nuove
traduzioni e da lì creare una nuova teologia ed una nuova spiritualità. Noi
siamo fortunati perché siamo all’alba di una primavera straordinaria che
causerà e provocherà tanti cambiamenti nella struttura stessa della chiesa.
33
Domanda.
Lei ha insistito molto sulla comunità, ma qual è il riferimento? La
parrocchia, il gruppo....?
A. Maggi
. L’azione di Gesù più importante che troviamo nei vangeli, è stata
quella di togliere delle persone dai recinti, ma non per inserirli poi in un altro
recinto.
Un altro errore nefasto nella traduzione dei vangeli causò guerre tra i
cristiani e causò una teologia assurda.
Sapete che Gesù nel cap. 10 del vangelo di Giovanni dopo aver cacciato la
pecore dall’ovile, che era l’immagine del recinto dell’istituzione giudaica,
dice: ho altre pecore che non sono di questo ovile, anche queste devo far
uscire affinché essi formino un solo gregge, un pastore.
Cioè, che cosa è che fa Gesù? La religione, immagine dell’ovile offre la
sicurezza, il recinto però toglie la libertà, e questo è il fascino della
religione.
Chi entra nell’ambito della religione non è più una persona libera perché ci
sarà sempre qualcuno che gli dirà cosa fare, come fare e dove farlo. Quindi
non è una persona libera, però ha la sicurezza perché non deve più ragionare
con la propria testa.
Io per sapere cosa devo fare mi rivolgo ad una autorità che riconosco
superiore, quindi non sono libero, ma sono sicuro; questo però mi tiene in una
posizione infantile.
Ebbene Gesù viene a liberare da questo recinto, ma non viene a formarne un
altro più bello, più santo. Gesù dona la piena libertà della persona, perché
soltanto la persona libera può maturare, crescere e ragionare con la propria
testa.
Nella traduzione di questo testo, il traduttore, forse san Girolamo, anziché
la parola gregge ha confuso con la parola ovile e scrisse: “
si farà un solo
ovile, un solo pastore
”. (Gv 10,16). Da qui la pretesa della chiesa di essere
l’unico ovile di Cristo, da cui viene quell’affermazione drammatica che fuori
dalla chiesa (e si intendeva chiesa cattolica) non c’è salvezza (
extra
ecclesiam nulla salus
). Il concilio di Firenze del 1432 aveva decretato che
tutti gli ebrei, mussulmani, gli infedeli, i non battezzati, quando morivano
andavano all’inferno per tutta l’eternità perché l’unica salvezza è nella chiesa
cattolica.
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Contrordine, il Concilio Vaticano II, 5 secoli dopo, dice che tutti ebrei,
mussulmani e aggiunge anche la categoria degli atei, ma che rispondono ai
dettami dalla propria coscienza, conseguono la salvezza (cf
Lumen Gentium
16); quindi abbiamo avuto per secoli persone ad essere precettate ad essere
cattoliche, non si poteva scegliere, non c’era alternativa, se non l’inferno fino
alla fine dei tempi.
Allora Gesù non è venuto a creare dei recinti, per quanto sacri per quanto
belli!, ma letteralmente “
un gregge, un pastore”, (non c’è la “e” congiunzione)
cioè la presenza del un gregge comporta quella del pastore: questa è la
comunità cristiana.
Ma le forme come realizzare questa comunità, Gesù non le dà, non le
determina; sarà compito della comunità inventare e creare queste forme
nuove.
Se una forma va bene per un determinato periodo e poi si vede che non va
più bene, è inutile insistere, si cambia. Quindi è importante per la dinamica
della comunità, (quindi non so rispondere esattamente alla domanda), che
ogni qualvolta una struttura si rivela insufficiente per rispondere alle
esigenze degli uomini, si cambia, non perché veneranda, non perché si è
sempre fatto così, non perché si sono avuti tanti in questa struttura, quando
si vede che è insufficiente si rinnova. Oggi c’è la bella novità della mobilità,
della capacità di muoversi, se nella comunità dove siamo non siamo
soddisfatti del servizio che ci fanno, si prende e si va da un’altra parte. Non
è più come una volta che si era obbligati in un determinato posto, in una
determinata comunità, oggi quando una non è soddisfatto di un posto, prende
e va dall’altra parte.
Domanda
. Gesù risuscitato a Gerusalemme, nel vangelo di Matteo, è andato
in Galilea. Che cosa è oggi Gerusalemme e che cosa è oggi la Galilea per noi?
A. Maggi
. È un episodio strano che troviamo alla fine del vangelo, ma
ricordiamoci che i vangeli non vogliono essere una cronistoria e raccontare
dei fatti, ma una teologia, cioè il porre delle verità, per cui gli evangelisti
prendono degli elementi della vita di Gesù e del suo insegnamento e poi li
elaborano in piena libertà. A loro non interessa la storicità di un fatto, ma la
verità dello stesso.
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Se noi prendiamo gli avvenimenti che seguono la morte di Gesù, che muore
assassinato a Gerusalemme, è stato seppellito a Gerusalemme, risuscita a
Gerusalemme, i discepoli sono a Gerusalemme, e la cosa più normale una volta
risuscitato, che compaia ai discepoli: infatti se andiamo a leggere il vangelo
di Giovanni, la sera stessa Gesù compare ai discepoli che sono chiusi per
paura dei Giudei.
Nel vangelo di Matteo invece, quando Gesù risuscita, non appare a
Gerusalemme, ma dice alle donne: “
andate a dire ai discepoli che se mi
vogliono vedere vadano in Galilea, là mi vedranno
”.
È strano: ma perché posticipare l’esperienza importante della risurrezione di
Cristo almeno di 4 giorni (tempo di viaggio da Gerusalemme alla Galilea),
perchè questo significato?
E poi, perché l’evangelista scrive che gli undici andarono su un monte che
Gesù aveva loro indicato?
Gesù non ha indicato nessun monte, Gesù ha detto: andate in Galilea, loro
vanno su un monte, che monte è? È il monte delle beatitudini. È questo il
monte.
Cosa ci vuol dire l’evangelista?
Che l’esperienza del Cristo risuscitato non è tanto un privilegio concesso
2000 anni fa a un piccolo gruppo di persone, ma una possibilità per i credenti
di tutti i tempi.
Come?
Basta andare in Galilea sul monte delle beatitudini, il che non significa fare
un pellegrinaggio in quei posti, significa accogliere il messaggio di Gesù così
come è formulato nelle beatitudini: chi accoglie questo messaggio fa
l’esperienza del Cristo risorto.
Ma perché Gesù non è apparso a Gerusalemme?
Perché Gerusalemme nel vangelo di Matteo appare sin dagli inizi sotto una
luce sinistra.
Ricordate l’annuncio (Mt 2,3) che è nato il re dei giudei?
Scrive l’evangelista che Erode “
fu preso da spavento”, e che si spaventasse è
comprensibile, non era un re legittimo, non ha sangue ebreo nelle vene e era
ossessionato dall’idea che qualcuno gli potesse togliere il potere. Tre figli ha
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ammazzato più una decina di famigliari per paura che gli togliessero il
potere, e l’ultimo figlio l’ha ammazzato 5 giorni prima di morire, quindi era un
uomo ossessionato dal potere; figuriamoci quando sente il messaggio che è
nato un nuovo re!!
Erode si turba, ma l’evangelista aggiunge, “
e con lui tutta Gerusalemme”.
Come mai Gerusalemme, la città santa, la città del tempio, dell’attesa del
messia, quando annunciano che è nato si spaventa, si turba?
L’evangelista non fa altro che anticipare quella che sarà l’azione di Gesù, la
cui venuta sarà la fine di Gerusalemme, di questa istituzione religiosa che
aveva usurpato il nome di Dio. La venuta di Gesù sarà la fine del tempio; il
tempio serviva per portare i sacrifici a Dio, e Gesù presenta un Dio che non
chiede nessun sacrificio. E la stella che guida i magi non brillerà mai sopra
Gerusalemme che è sotto una cappa di tenebre.
Allora per questo Gesù quando risuscita non appare a Gerusalemme.
Gerusalemme è la città di morte, è la città assassina. Gerusalemme oggi è
l’istituzione religiosa che continua a non riconoscere i profeti, che li ostacola
e quando può li elimina. Gerusalemme è l’istituzione dove Dio viene
strumentalizzato per il proprio potere, per la propria ricchezza, dove il volto
di Dio viene deformato per imporre il proprio dominio alle persone. Questa è
Gerusalemme nell’immagine biblica.
La Galilea, il monte della Galilea, è il luogo della libertà, perché il rischio del
messaggio di Gesù è che chi lo accoglie, diventa ingovernabile perché è una
persona completamente libera.
Quando Gesù mette come condizione a chi lo vuol seguire “
se non prendete la
croce
”, non significa, se non sono accettate le sofferenze, le disgrazie della
vita. La croce era il patibolo riservato alla feccia della società; allora Gesù a
questi discepoli che lo seguono per ambizione, che lo seguono con speranza
di successo, di condividere il potere con Lui.
Gesù dice: se non rinunciate a tutto questo, anzi se non accettate di essere
considerati la feccia della società, non pensate di seguirmi.
Allora, qual è il significato della croce oggi?
Se non accettate di perdere la vostra reputazione, a causa di Gesù e del suo
messaggio, (naturalmente non per la vostra stupidità), non pensate di
seguirmi.
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All’inizio è doloroso perché tutti ci teniamo al nostro buon nome, ci teniamo
alla reputazione, al giudizio degli altri a quello che pensano gli altri, ma
quando poi a causa di Gesù, di fedeltà al suo messaggio, si perde la
reputazione, c’è l’ebbrezza della libertà, e non si torna più indietro!
Ma ci pensate?
Finalmente poter dire quello che si pensa, perché - tanto che ti interessa? -
quello che gli altri pensano di te, peggio di così non possono dire, hai perso
tutta la reputazione.
Pensate, poter essere quello che finalmente si è, ma non continuare con
tutte le supposizioni: chissà cosa pensa, come mi giudica.
Gesù invita a fare questo: perdete la vostra reputazione, perché soltanto chi
perde la reputazione è una persona libera e soltanto una persona libera può
seguire Gesù.
Domanda
. Storia e geografia nei vangeli...
A. Maggi
. Attenzione gli evangelisti nella piena libertà di movimento,
adoperano elementi storici e geografici secondo il loro piano teologico. È una
cosa molto difficile per noi occidentali capire.
In
oriente quello che conta è la verità di un fatto e non la storicità; per
noi ciò che è vero deve essere anche storico
, ma non è così, e gli
evangelisti pur contenendo elementi storici non vogliono trasmettere la
storia, ma la verità di un fatto, mentre per noi quello che è vero deve essere
anche storico. Eppure non sempre è così perché è più incisiva la verità di un
fatto che la sua storicità.
Un esempio, prendete un quadro che c’è a Washington dove viene presentato
il presidente Abramo Lincoln nell’atto di spezzare le catene di uno schiavo.
Il pittore cosa ha rappresentato? Un fatto storico o un fatto vero?
Non un fatto storico, perché mai Lincoln ha spezzato le catene ad uno
schiavo, ma una verità, un fatto vero.
Ma per rappresentarlo era molto più incisiva l’immagine di Lincoln che spezza
le catene di uno schiavo che Lincoln che firma il documento con il quale si
abolisce la schiavitù.
E così gli evangelisti trasmettono la verità di Gesù, ma senza quelle nostre
preoccupazioni sulla storicità dei fatti. Ecco perché qualcuno che vuol avere
certezze geografiche può rimanere un po’ deluso.
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Pensate alla confusione quando il lago di Galilea lo chiamano mare, già si
conosce poco la geografia di quei posti, il mare è mare: perché il lago
l’evangelista lo chiama mare?
Perché l’evangelista ha un intento teologico; il mare è quel confine da
passare per raggiungere la libertà, ricordate il popolo ebraico che dovette
passare attraverso il mare. Il mare è il confine con il mondo pagano, allora
loro quello che è un lago, lo chiamano mare.
Domanda
. Separati e divorziati in difficoltà per i sacramenti: perché Gesù
nel vangelo non permette il divorzio?
A. Maggi
.
Che cosa è il vangelo? È diventato abitudinario definire le grandi religioni
monoteiste, come le religioni del libro.
Cosa si intende per religioni del libro? Si intende una religione dove c’è un
libro che si crede ispirato da Dio, oppure dettato direttamente da Dio nel
quale è contenuta la sua volontà immutabile per tutti i tempi.
Il libro è dato ad una determinata data storica, avvengono cambiamenti
nell’umanità, cambia la società, cambia la cultura, ma ogni generazione deve
osservare ciò che è scritto in questo libro.
Ma adesso ci sono situazioni nuove che nel libro non vengono contemplate…
non importa!
Per religione del libro si intende un libro ispirato o dettato da Dio dove è
stata descritta in maniera immutabile la sua volontà e tutti gli uomini di
tutte le generazioni devono osservare queste leggi.
Ma capite che leggi scritte in altri contesti sociali, in altre situazioni non
possono rispondere alla dinamica della società, non importa, si sacrificano le
persone per mantenere integro ciò che è scritto nel libro.
Questa è la religione del libro; non così i vangeli. Quella di Gesù non può
essere qualificata come una religione del libro, ma come una fede dell’uomo:
quello di Gesù è un messaggio in cui al centro non c’è Dio, ma c’è il bene
dell’uomo
, perché quando si parla del bene dell’uomo, per Gesù si fa pure il
bene di Dio, ma quando si fa il bene di Dio, spesso si può fare il male
all’uomo.
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Ricordate nella parabola del samaritano, il sacerdote che non soccorre il
ferito non è una persona crudele, è un perfetto osservante.
Cosa è più importante? L’amore a Dio, “amerai il Signore tuo con tutta la tua
anima, con tutte le tue forze, con tutto te stesso” o un semplice precetto:
“ama il prossimo tuo”?
È più importante l’amore di Dio. Allora tra l’osservanza della legge di Dio e il
bene dell’uomo si preferisce la prima, e siccome la legge ti proibisce a te che
sei sacerdote di toccare un ferito perché ti rende impuro, si onora Dio e si
sacrifica l’uomo.
Quella di Gesù non è una religione del libro, ma un a fede dell’uomo, e gli
evangelisti lo hanno capito.
Ecco perché per i primi secoli il testo evangelico è stato un testo vivente. Il
testo cresceva e si arricchiva secondo la vita della comunità.
A quell’epoca non esisteva il divorzio, ma il ripudio. Il ripudio era un
documento che l’uomo per qualunque motivo poteva cacciare via la moglie. Se
andiamo a leggere nel Talmud le motivazioni sufficienti per ripudiare la
propria moglie, pensate che c’è scritto: se al mattino l’uomo svegliandosi e
guardando il volto della moglie non lo trova più di suo gradimento, scriva il
certificato di ripudio e la mandi via, anche se brucia una pietanza può essere
cacciata la moglie; quindi era un atto di ingiustizia da parte dell’uomo nei
confronti della donna.
Gesù nel vangelo di Marco, che è il più antico, è categorico, l’uomo non può
ripudiare la propria moglie. La frase di Gesù è molto chiara e molto severa:
non è lecito all’uomo ripudiare la propria moglie.
Poi passano i tempi, passano gli anni e nella comunità di Matteo si
manifestano nuove situazioni che non erano state contemplate in quella
primitiva di Marco e allora cosa si fa? Si fa la revisione del libro? La legge è
così e basta?
No, non è la religione del libro, ma la fede nell’uomo, ed allora lo stesso
episodio, la stessa frase (“non è lecito all’uomo ripudiare la propria moglie”),
e Matteo aggiunge un’eccezione con una parola greca che ha almeno una
ventina di significati per evitare che si facesse una casistica, eccetto in
caso di
porne…a (pornèia) e significa adulterio, relazione
illecita,..etc..perché non ha voluto chiudere l’argomento.
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Nella comunità di Matteo la frase di Gesù viene ripresa, ma viene aperta una
eccezione che i padri della chiesa interpretarono con adulterio, ma non nel
senso di “corna”, ma nel senso che uno della coppia che è andato
definitivamente con un’altra persona, e il matrimonio non c’è più; quindi
l’uomo può sciogliere il matrimonio in un caso del genere.
Oggi la chiesa cattolica si trova di fronte ad una enorme contraddizione che,
è questione di tempo ma ne abbiamo la certezza, risolverà.
La contraddizione oggi è che la chiesa da sempre ha rivendicato il potere
concesso da Cristo di perdonare tutti i peccati, ma adesso inciampa su quello
del divorzio. La chiesa è cattolica, ma la chiesa è romana e quello che
succede a Roma, quello che succede in Italia è quello che determina la
teologia.
Cinquanta anni fa il divorzio era una parola quasi inesistente, si leggeva a
volte delle attrici di Hollywood che divorziavano, ma in Italia era un
concetto inesistente, già se una persona era separata si diceva sottovoce;
oggi no, oggi è una realtà che c’è, che esiste, con la chiesa si è trovata
impreparata a fare i conti.
Allora oggi la contraddizione nella teologia della chiesa è che è più grave il
divorzio dell’omicidio. Se tu ammazzi tuo marito o tua moglie e poi ti penti,
ritorni alla piena comunione con la chiesa e ti puoi risposare. Se divorzi, non
è più possibile; tanto è vero che io alle persone divorziate che hanno questo
problema dico che c’è la soluzione: ammazza il coniuge!!!
Con la legge italiana ti fai un paio di anni, cosa vuoi che sia!! E poi risolvi e
regoli la tua situazione.
Vedete è umoristico, ridicolo, e quindi: è possibile che sia più grave il
peccato di divorzio che quello di omicidio? Certamente no.
Cosa fare? Andiamo a vedere nella storia del cristianesimo quando nelle
comunità cristiane accadeva questo problema: ai divorziati si faceva fare un
cammino penitenziale, nel senso di conversione di 3 anni e poi venivano
riammessi pienamente nella chiesa.
Solo che il cammino, i cambiamenti sono lenti. Sapete che nei primi secoli
della chiesa non si permetteva ai vedovi di risposarsi? Vedovi e vedove
dovevano rimanere nella loro condizione, non erano tollerate nuove nozze da
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parte dei vedovi; e sapete che fino al concilio vaticano II nel rito
matrimoniale dei vedovi non era consentita la benedizione della sposa?
Sei già stata benedetta una volta, quante ne vuoi !!
La chiesa è un po’ lenta, ma speriamo che adesso acceleri, e sono fiducioso
che arriverà alla soluzione di questo problema dei divorziati perché prima
non esisteva e oggi è impellente più che mai, e poi la chiesa deve essere
madre e non matrigna e non deve infliggere una sofferenza nella vita di
tante persone. Sarà una questione di tempo, speriamo prima che dopo,
perché è una contraddizione ormai insopportabile nella chiesa.
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