Famiglia dove sei???

Famiglia dove sei???
Quando non divulghi le colpe dei fratelli, quando perdoni senza indagare nel passato, quando non condanni, ma intercedi nell'intimo, il silenzio è misericordia.

sabato 5 novembre 2011

ANNUNCIARE IL VANGELO



ANNUNCIARE IL VANGELO

Annunciare il vangelo è un "servizio" reso alla comunità cristiana e a tutta l’umanità. Le condizioni della società di oggi ci obbligano tutti a rivedere i modi e i mezzi per portare all’uomo moderno il messaggio cristiano.
Soltanto nel vangelo l’uomo può trovare la risposta ai suoi interrogativi e la forza per il suo impegno di solidarietà umana. Il patrimonio della fede c’è: si tratta di presentarlo agli uomini del nostro tempo in modo comprensibile e persuasivo. Il messaggio evangelico è necessario, unico e insostituibile.
Bisogna tradurlo senza tradirlo, viverlo e proporlo agli altri senza accomodamenti, annacquamenti e miscugli di vario genere. Rappresenta la bellezza della rivelazione. Ha in sè una saggezza che non è di questo mondo. È capace di suscitare la fede che poggia sulla potenza di Dio. Esso è la verità. Merita che l’apostolo vi consacri tutto il suo tempo, tutte le sue energie e vi sacrifichi, se è necessario, la propria vita.
Cristo evangelizzatore
"Gesù disse: Bisogna che io annunci il regno di Dio: per questo sono stato mandato" (Lc 4,43); e applica a se stesso la frase del profeta Isaia: "Lo Spirito del Signore è sopra di me... e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto annunzio (= vangelo)" (cf.Is 61,1; Lc 4, 18).
Gesù passa di città in città per proclamare il vangelo del regno di Dio: è lui il primo e più grande evangelizzatore di tutti i tempi. Il regno di Dio annunciato da Gesù è così importante che ogni altra cosa diventa "il resto" che è "dato in aggiunta".
(cf. Mt 6,33)
Nucleo centrale del vangelo: la salvezza, dono grande di Dio, liberazione da tutto ciò che opprime l’uomo, liberazione dal peccato e dal maligno, gioia di conoscere Dio e di essere conosciuti da lui, di vederlo e di abbandonarsi a lui.
Questo regno e questa salvezza ogni uomo può riceverli come grazia e misericordia e, nello stesso tempo, deve conquistarli con la forza (cf. Mt 11,12; Lc 16,16), con la fatica e la sofferenza, con una vita secondo il vangelo, con la rinuncia e la croce, con lo spirito delle beatitudini, con la conversione totale della mente e del cuore.
Questa proclamazione del regno di Dio, il Cristo la compie mediante la predicazione instancabile di una parola che non
trova l’eguale: "dottrina nuova" (Mc 1,27), "parole di grazia"
(Lc 4,22), "mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo!" (Gv 7,46).
Chiesa evangelizzatrice
Quelli che accolgono l’annuncio del vangelo si riuniscono nel nome di Gesù per cercare insieme il regno di Dio, costruirlo, viverlo. L’ordine dato agli Apostoli: "Andate, proclamate il vangelo" vale per tutti i cristiani. L’annuncio del regno di Dio è per tutti gli uomini di tutti i tempi. Chi lo ha accolto può e deve comunicarlo e diffonderlo.
Scriveva s. Paolo: "Per me evangelizzare è un dovere. Guai a me se non predicassi il vangelo!" (1 Cor 9,16). Evangelizzare è la missione essenziale della chiesa, la grazia e la vocazione propria della chiesa, la sua identità più profonda.
La chiesa esiste per evangelizzare, per predicare e insegnare, per essere il canale del dono della grazia, per riconciliare i peccatori con Dio, per perpetuare il sacrificio del Cristo nella santa messa. La chiesa è nata dalla predicazione di Gesù e degli apostoli. "Coloro che accolsero la parola furono battezzati e circa tremila si unirono ad essi... e il Signore, ogni giorno, aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati" (At 2, 41.47).
La chiesa evangelizzatrice comincia con l’evangelizzare se stessa. Ha bisogno di ascoltare continuamente ciò che deve credere, sperare, amare. Ha bisogno di conversione e di rinnovamento costanti se vuole evangelizzare il mondo con credibilità.
La chiesa manda gli evangelizzatori a predicare, ma... non a predicare se stessi, le proprie idee personali, ma il vangelo di cui né essi né essa sono padroni e proprietari assoluti.
La chiesa e gli evangelizzatori sono servitori del vangelo per trasmetterlo con estrema fedeltà. Cristo ha dato alla sua chiesa il mandato (= incarico, missione) di evangelizzare.
Questo mandato non si adempie senza di essa, né, tanto meno, contro di essa. Qualcuno dice: Io amo Cristo, ma non la chiesa; io ascolto Cristo, ma non la chiesa; io voglio appartenere a Cristo, ma fuori dalla chiesa.
È impossibile e assurdo tentare di separare Cristo dalla sua chiesa. Gesù ha detto: "Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato" (Lc 10, 16). Paolo ha scritto: "Egli (Cristo) ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei" (Ef 5,25). S. Cipriano afferma: "Non può avere Dio per padre chi non ha la chiesa per madre" (Cipriano, Sull’unità della chiesa cattolica, 6,8).
Che cosa significa evangelizzare
Evangelizzare è portare il lieto annuncio della salvezza a tutti gli strati dell’umanità, per trasformarla dal di dentro e renderla nuova.
Ma non c’è umanità nuova se prima non ci sono uomini nuovi. Questa novità nasce dal battesimo e dalla vita secondo il vangelo. La chiesa evangelizza in modo vitale, in profondità, fino alle ultime radici, la cultura e le culture dell’uomo.
Il vangelo è proclamato mediante la testimonianza della vita. A questa testimonianza tutti i cristiani sono chiamati e possono essere, sotto questo aspetto, dei veri evangelizzatori.
Questa testimonianza, tuttavia, si rivelerà impotente se non è illuminata, giustificata e esplicitata da un annuncio chiaro e inequivocabile del Signore Gesù. La buona novella proclamata dalla testimonianza di vita dovrà essere, presto o tardi, annunciata dalla parola di vita.
Non c’è vera evangelizzazione se non sono proclamati il nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il regno, il mistero di Gesù di Nazaret, figlio di Dio.
La chiesa ha un grande desiderio di evangelizzare. I problemi che 1’assillano sono: chi inviare ad annunciare il mistero di Gesù? Che linguaggio usare per farsi capire? Come fare perché l’annuncio arrivi a tutti quelli che lo devono ascoltare?
L’annuncio deve essere capito, accolto, assimilato. Deve suscitare l’adesione del cuore alla verità e al programma di vita che esso propone.
Adesione al regno, cioè al "mondo nuovo", al nuovo stato di cose, alla nuova maniera di essere, di vivere, di vivere insieme, che il vangelo inaugura. Una tale adesione non può restare astratta o disincarnata, ma si rivela concretamente mediante un ingresso visibile nella comunità dei fedeli, la chiesa, sacramento universale di salvezza.
Chi è stato evangelizzato a sua volta evangelizza. Qui è la prova della verità. È impensabile che un uomo abbia accolto la parola e si sia dato al regno di Dio senza diventare a sua volta testimone e annunciatore della parola e del regno.
In sintesi. Evangelizzare è:
rinnovamento dell’umanità,
testimonianza di vita,
annuncio esplicito,
adesione del cuore,
ingresso nella comunità,
accoglimento dei sacramenti,
iniziative di apostolato.
Questi elementi non sono in contrasto tra di loro, ma sono complementari e si arricchiscono a vicenda.
Contenuto dell’evangelizzazione
Evangelizzare è testimoniare Dio rivelato da Gesù Cristo nello Spirito Santo. Testimoniare che, nel suo Figlio, Dio ha amato il mondo, ha dato l’esistenza a tutte le cose e ha chiamato gli uomini alla vita eterna. Per l’uomo, il creatore non è una parola anonima e lontana: è il Padre. "Siamo chiamati figli di Dio e lo siamo realmente" (1 Gv 3,1).
E siamo fratelli gli uni gli altri in Dio. In Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, morto e risuscitato, la salvezza è offerta ad ogni uomo come dono di grazia e misericordia di Dio stesso. Questa salvezza oltrepassa tutti i limiti della vita presente e si realizza in Dio, ha inizio in questa vita, ma si compie nell’eternità. Il nucleo del vangelo è: proclamazione dell’amore di Dio verso di noi e del nostro amore verso di lui, predicazione dell’amore fraterno per tutti gli uomini, capacità di dono, di perdono, di abnegazione e di aiuto ai fratelli, predicazione del mistero del male e della ricerca attiva del bene, predicazione della ricerca di Dio attraverso la preghiera e i sacramenti, segni del Cristo vivente e operante nella chiesa.
L’incontro con Cristo nei sacramenti è il completamento naturale, il punto di arrivo dell’evangelizzazione. Evangelizzare è impiantare la chiesa. La chiesa non esiste senza la vita sacramentale culminante nell’eucaristia.
Il vangelo coinvolge la vita concreta, personale e sociale dell’uomo. L’evangelizzazione è un messaggio esplicito, costantemente aggiornato e applicato, sui diritti e sui doveri di ogni persona umana, sulla vita familiare, sulla vita comune nella società, sulla vita internazionale, la pace, la giustizia, lo sviluppo, la liberazione.
Fa parte dell’evangelizzazione annunziare la liberazione di milioni di esseri umani da carestie, analfabetismo, pauperismo, ingiustizia nei rapporti internazionali (specialmente negli scambi commerciali), da situazioni di neo-colonialismo economico e culturale talvolta crudele quanto l’antico colonialismo politico. Tra evangelizzazione e promozione umana ci sono legami profondi. L’uomo da evangelizzare non è un essere astratto, ma condizionato da questioni sociali e economiche.
Non si può dissociare il piano della creazione da quello della redenzione. Non si può proclamare il comandamento nuovo (amore verso il prossimo) senza promuovere l’autentica crescita dell’uomo nella giustizia e nella pace vera. Sarebbe dimenticare la lezione che ci viene dal vangelo sull’amore del prossimo sofferente e bisognoso.
Tuttavia bisogna affermare chiaramente la finalità specificamente religiosa dell’evangelizzazione: il regno di Dio prima di ogni altra cosa. La liberazione annunciata dall’evangelizzazione non può limitarsi alla semplice dimensione economica, politica, sociale e culturale, ma deve mirare all’uomo tutto intero in ogni sua dimensione, compresa la sua apertura verso l’assoluto di Dio.
La chiesa non circoscrive la sua missione al solo campo religioso, disinteressandosi dei problemi dell’uomo, ma afferma il primato della sua vocazione spirituale. Il suo contributo alla liberazione è incompleto se trascura di annunciare la salvezza in Cristo. La chiesa collega ma non identifica mai liberazione umana e salvezza in Cristo; sa che non basta instaurare la liberazione, cercare il benessere e lo sviluppo, perché venga il regno di Dio.
La chiesa ritiene importante e urgente edificare strutture più umane, più giuste, più rispettose dei diritti della persona, meno oppressive e meno coercitive, ma sa anche che le migliori strutture, i sistemi meglio idealizzati diventano presto inumani se le inclinazioni inumane del cuore dell’uomo non vengono risanate, se non c’è una conversione del cuore e della mente di coloro che vivono in queste strutture e le dominano.
La chiesa non può accettare la violenza, la forza delle armi né la morte di nessuno come cammino di liberazione, perché sa che la violenza chiama sempre violenza e genera irresistibilmente nuove forme di oppressione e di schiavitù più pesanti di quelle dalle quali essa pretendeva liberare.
"Vi esortiamo a non mettere la vostra fiducia nella violenza né nella rivoluzione; tale atteggiamento è contrario allo spirito cristiano e può anche ritardare e non favorire l’elevazione sociale alla quale legittimamente aspirate"; "dobbiamo dire e riaffermare che la violenza non è né cristiana né evangelica e che i mutamenti bruschi o violenti delle strutture sarebbero fallaci e inefficaci in se stessi e certamente non conformi alla dignità del popolo" (Paolo VI; 22-23 agosto 1968).
La chiesa cosa fa in concreto? Suscita numerosi cristiani che si dedichino alla liberazione degli altri; offre loro una ispirazione di fede, una motivazione di amore fraterno, un insegnamento sociale da tradurre sapientemente in azione, partecipazione e impegno.
La chiesa si sforza di inserire sempre la lotta cristiana per la liberazione nel disegno globale della salvezza che essa annuncia: liberazione che Cristo ha donato all’uomo mediante il suo sacrificio.
La libertà religiosa occupa un posto di primaria importanza tra i diritti fondamentali dell’uomo.
Le vie dell’evangelizzazione
Occorre ricercare con audacia e saggezza i modi più adatti e più efficaci per comunicare il vangelo agli uomini del nostro tempo. Primo mezzo di evangelizzazione: testimonianza di vita autenticamente cristiana. L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri. Se ascolta i maestri lo fa perché sono testimoni.
La chiesa evangelizza con la sua testimonianza di santità vissuta. Non sottovalutiamo tuttavia l’importanza e la necessità della predicazione.
La fede dipende dalla predicazione della parola di Dio: la predicazione è sempre indispensabile.
La stanchezza che provocano ai nostri giorni tanti discorsi vuoti non deve far diminuire la forza della parola né far perdere la fiducia in essa.
La parola resta sempre attuale, soprattutto quando è portatrice della potenza di Dio (Cf. 1 Cor 2,1-5). Per questo resta ancora attuale la frase di s. Paolo: "La fede dipende dalla predicazione" (Rm 10,17). La parola ascoltata porta alla fede.
L’omelia è strumento valido e adattissimo di evangelizzazione purché esprima la fede profonda di chi predica e sia impregnata d’amore. L’omelia deve essere: semplice, chiara, diretta, adatta, profondamente radicata nell’insegnamento evangelico e fedele all’insegnamento della chiesa, animata da ardore apostolico, piena di speranza, nutriente per la fede, generatrice di pace e di unità.
L’insegnamento catechetico e l’insegnamento religioso sistematico non devono rimanere solo a livello intellettuale, ma devono formare abitudini di vita cristiana.
Bisogna preparare buoni catechisti preoccupati di perfezionarsi in questa arte superiore. Le condizioni attuali rendono sempre più urgente l’insegnamento catechetico sotto forma di catecumenato per numerosi giovani e adulti che, toccati dalla grazia, scoprono a poco a poco il volto di Cristo e provano il bisogno di donarsi a lui.
L’evangelizzazione non può fare a meno dei mezzi di comunicazione sociale: servendosi di essi, la chiesa "predica sui tetti" (cf. Mt 10, 26) e riesce a parlare alle moltitudini.
La trasmissione del vangelo da persona a persona mantiene sempre la sua validità e importanza (cf. conversazioni di Gesù con Nicodemo, Zaccheo, la samaritana...).
Attraverso il sacramento della penitenza, il dialogo personale, la direzione spirituale, i sacerdoti guidano le persone nelle vie del vangelo. L’evangelizzazione manifesta tutta la sua ricchezza quando crea un rapporto intimo tra parola di Dio e sacramenti. Tra evangelizzazione e sacramenti non c’è contrapposizione.
Il compito dell’evangelizzazione è precisamente quello di educare alla fede in modo che essa conduca il cristiano a vivere i sacramenti come veri sacramenti della fede e non a riceverli passivamente senza capirne il significato, privandoli così in gran parte, della loro efficacia.
La pietà popolare è ricca di valori, ma ha certamente dei limiti. Resta spesso a livello di manifestazione di culto senza impegnare a una autentica adesione di fede.
Ben orientata, può essere un vero incontro con Dio in Gesù Cristo per le masse popolari. Essa manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere.
Destinatari dell’evangelizzazione
Le ultime parole di Gesù nel vangelo di Marco: "Andate in tutto il mondo a predicare il vangelo ad ogni creatura" (Mc 16,15) conferiscono alla evangelizzazione una universalità senza frontiere.
I primi cristiani hanno ben compreso la lezione di questo testo e di altri simili e ne hanno fatto un programma di azione.
La stessa persecuzione (cf. At 8,1) ha contribuito a disseminare la Parola e a far impiantare la chiesa in regioni più lontane.
Oggi l’opera evangelizzatrice della chiesa è fortemente contrastata e impedita dai poteri pubblici. Annunciatori della parola di Dio sono privati dei loro diritti, perseguitati, minacciati, eliminati per il solo fatto di predicare Gesù Cristo e il suo vangelo. Nonostante tali avversità, la chiesa ravviva la sua ispirazione più profonda che le viene direttamente dal Maestro: A tutto il mondo! A tutte le creature! Fino agli estremi confini della terra!
Fin dal mattino della Pentecoste il programma fondamentale della chiesa è stato questo: rivelare Gesù Cristo e il suo vangelo a quelli che non li conoscono.
A causa di situazioni di scristianizzazione frequenti ai nostri giorni questo primo annuncio (Kerygma) si dimostra sempre più necessario per moltitudini di persone che hanno ricevuto il battesimo ma vivono completamente al di fuori della vita cristiana, per gente semplice che ha una certa fede ma ne conosce male i fondamenti, per intellettuali che sentono il bisogno di conoscere Gesù in una luce diversa dall’insegnamento ricevuto nello loro infanzia, e per molti altri.
Le religioni non cristiane portano in sé l’eco di millenni di ricerca di Dio. Posseggono un patrimonio impressionante di testi profondamente religiosi. Hanno insegnato a generazioni di persone a pregare. Sono ricche di "germi del Verbo" e possono essere un’autentica preparazione al vangelo.
L’incontro dei missionari di oggi e di domani con le religioni non cristiane suscita questioni complesse e delicate. Tuttavia, né il rispetto e la stima verso queste religioni, né la complessità dei problemi sollevati, sono per la chiesa un invito a tacere l’annuncio di Cristo di fronte ai non cristiani.
Al contrario la chiesa pensa che queste moltitudini hanno il diritto di conoscere la ricchezza del mistero di Cristo (cf. Ef 3,8) nella quale tutta l’umanità può trovare tutto ciò che essa cerca a tentoni su Dio, sull’uomo e sul suo destino, sulla vita e sulla morte, sulla verità.
La religione di Gesù mette oggettivamente l’uomo in rapporto con Dio. La nostra religione instaura effettivamente con Dio un rapporto autentico e vivente che le altre religioni non riescono a stabilire. Per questo la chiesa mantiene vivo lo slancio missionario e vuole intensificarlo nel nostro momento storico. Si sente responsabile di fronte a popoli interi. Lo slancio apostolico non è esaurito, l’epoca delle missioni non è tramontata. L’annuncio missionario non si inaridisce. La chiesa sarà sempre tesa verso il suo adempimento.
La chiesa non si sente dispensata da una attenzione altrettanto infaticabile nei confronti di coloro che hanno ricevuto la fede e che da generazioni sono a contatto con il vangelo. Essa cerca di approfondire, consolidare, nutrire, rendere sempre più matura la fede di coloro che si dicono già fedeli e credenti, perché lo siano maggiormente.
Questa fede è oggi posta a confronto con il secolarismo e l’ateismo, esposta a prove e minacciata, assediata e combattuta. Essa rischia di perire per asfissia o per inedia se non è continuamente animata e sostenuta.
Nel mondo moderno aumenta la non credenza e il secolarismo. Il secolarismo è una concezione del mondo nella quale questo si spiega da sé senza che ci sia bisogno di ricorrere a Dio, divenuto in tal modo superfluo e ingombrante. Per riconoscere il potere dell’uomo si finisce col fare a meno di Dio e anche col negarlo. Nuove forme di ateismo - ateismo antropocentrico, non più astratto o metafisico ma pragmatico, programmatico e militante sembrano derivarne. In connessione con questo secolarismo ateo, ci vengono proposti tutti i giorni, sotto le forme più svariate, la civiltà dei consumi, l’edonismo elevato a valore supremo, la volontà di potere e di dominio, discriminazioni di ogni tipo: altrettante inclinazioni inumane di questo umanesimo. In questo mondo moderno non si può negare l’esistenza di vari addentellati cristiani, di valori evangelici, per lo meno sotto forma di vuoto o di nostalgia. Non sarebbe esagerato parlare di una possente e tragica invocazione ad essere evangelizzato.
I non praticanti (un gran numero di battezzati) non hanno rinnegato formalmente il loro battesimo ma ne sono completamente al margine e non lo vivono. Il fenomeno dei non praticanti è molto antico nella storia del cristianesimo, è legato ad una debolezza naturale, ad una profonda incoerenza che, purtroppo, ci portiamo dentro. Esso presenta oggi delle caratteristiche nuove. Si spiega mediante gli sradicamenti tipici della nostra epoca e nasce dal fatto che i cristiani vivono a fianco dei non credenti e ne ricevono i contraccolpi della non credenza. I non praticanti contemporanei cercano di spiegare e giustificare la loro posizione in nome di una religione interiore, dell’autonomia e dell’autenticità personali. Atei e non credenti da una parte, non praticanti dall’altra, oppongono all’evangelizzazione resistenze non trascurabili.
Atei e non credenti oppongono la resistenza di un certo rifiuto, l’incapacità di cogliere il nuovo ordine delle cose, il nuovo senso del mondo, della vita, della storia che non è possibile se non si parte dall’assoluto di Dio.
I non praticanti oppongono la resistenza dell’inerzia, l’atteggiamento un po’ ostile di qualcuno che si sente di casa, che afferma di sapere tutto, di aver gustato tutto, di non credere più. Secolarismo ateo e assenza di pratica religiosa si trovano presso gli adulti e presso i giovani, presso l’élite e nelle masse, in tutti i settori culturali, nelle antiche come nelle giovani chiese.
L’azione evangelizzatrice della chiesa non può ignorare questi due mondi né arrestarsi davanti ad essi, deve cercare costantemente i mezzi e il linguaggio adeguati per proporre o riproporre loro la rivelazione di Dio e la fede in Gesù Cristo.
La chiesa vede davanti a sé un’immensa folla umana che ha bisogno del vangelo e vi ha diritto perché Dio "vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità" (1 Tm 2,4). Sa di avere il dovere di predicare la salvezza a tutti. Sa che il messaggio evangelico non è riservato a un piccolo gruppo di eletti, ma è destinato a tutti. La chiesa fa propria l’angoscia di Cristo di fronte alle folle sbandate e sfinite "come pecore senza pastore" e ripete spesso la sua parola: "Sento compassione di questa folla" (Mt 9,36;15,32).
La chiesa è cosciente che per l’efficacia della predicazione evangelica nel cuore delle masse deve indirizzare il suo messaggio a comunità di fedeli la cui azione può e deve giungere agli altri. Queste comunità di fedeli o "comunità ecclesiali di base" (movimenti, gruppi spontanei...) saranno un luogo di evangelizzazione e una speranza per la chiesa universale nella misura in cui: cercano il loro alimento nella parola di Dio e non si lasciano imprigionare dalle ideologie di moda; evitano la contestazione sistematica e lo spirito ipercritico; restano fedelmente attaccate alla chiesa locale e universale, evitando così il pericolo di isolarsi in se stesse, di credersi l’unica chiesa di Cristo; conservano una sincera comunione con i pastori che il Signore dà alla sua chiesa e col magistero che lo Spirito di Cristo ha loro affidato; non si considerano l’unico destinatario o l’unico artefice di evangelizzazione o l’unico depositario del vangelo, ma, consapevoli che la chiesa è molto più vasta e diversificata, accettano che questa chiesa si incarni anche in modi diversi da quelli che avvengono in esse; crescono ogni giorno in consapevolezza, zelo, impegno e irradiazione missionari; si mostrano universalistiche e non settarie.
A queste condizioni "le comunità ecclesiali di base" corrisponderanno alla loro fondamentale vocazione: ascoltatrici del vangelo e destinatarie privilegiate dell’evangelizzazione, diventeranno annunciatrici del vangelo.
Operai dell’evangelizzazione
Alla chiesa per "mandato divino incombe l’obbligo di andare nel mondo universo a predicare il vangelo ad ogni creatura" (Conc. Vat.II). "Tutta la chiesa è missionaria e l’opera evangelizzatrice è un dovere fondamentale del popolo di Dio" (Conc. Vat. II).
Evangelizzare non è mai stato un atto individuale e isolato, ma profondamente ecclesiale. Quindi nessun evangelizzatore è padrone assoluto della propria azione evangelizzatrice, ma deve compierla in comunione con la chiesa e con i suoi pastori.
Il Signore ha voluto la sua chiesa universale senza confini e senza frontiere. Il cristiano deve avere piena coscienza di appartenere ad una grande comunità che né lo spazio né il tempo possono limitare.
Non può quindi limitare i suoi orizzonti al suo gruppo, alla sua parrocchia, alla sua diocesi: cattolico vuol dire universale.
Il papa e i vescovi hanno il dovere e il diritto, per primi, di predicare e di far predicare il vangelo della salvezza.
Al papa e ai vescovi sono associati, come responsabili a titolo speciale, i sacerdoti e i diaconi. Più di qualunque altro membro della chiesa sono invitati a prendere coscienza di questo dovere!
I religiosi trovano nella loro vita consacrata un mezzo privilegiato per una evangelizzazione efficace.
Sono testimoni della santità della chiesa. Questa testimonianza è al primo posto in ordine all’evangelizzazione. Essi hanno dato e continuano a dare un apporto immenso all’evangelizzazione. Proprio per la loro consacrazione religiosa, sono volontari e liberi per lasciare tutto e andare ad annunziare il vangelo fino ai confini del mondo. Sono intraprendenti.
Il loro apostolato è contrassegnato da originalità e genialità che costringono all’ammirazione. Sono generosi: li si trova spesso agli avamposti della missione e assumono i più grandi rischi per la loro salute e per la loro stessa vita.
I laici devono esercitare una forma singolare di evangelizzazione. Devono mettere in atto tutte le possibilità cristiane e evangeliche nascoste, ma presenti e operanti nella realtà del mondo.
Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell’economia, della cultura, delle scienze e delle arti, della vita internazionale, degli strumenti di comunicazione sociale, di quelle realtà particolarmente aperte all’evangelizzazione come l’amore, la famiglia, l’educazione dei bambini e degli adolescenti, il lavoro professionale, la sofferenza.
Più ci saranno laici penetrati di spirito evangelico, responsabili di queste realtà e impegnati in esse, competenti nel promuoverle e consapevoli di dover sviluppare tutta la loro capacità cristiana, spesso tenuta nascosta e soffocata, tanto più queste realtà si troveranno al servizio della edificazione del regno di Dio e della salvezza in Gesù Cristo.
La famiglia ha ben meritato durante tutta la storia della chiesa la bella definizione di "chiesa domestica" (Lumen Gentium 11). In ogni famiglia cristiana dovrebbero riscontrarsi i diversi aspetti della chiesa intera.
La famiglia è una realtà nella quale il vangelo viene trasmesso e da cui il vangelo si irradia. Nell’intimo di una famiglia cosciente di questa missione, tutti i componenti evangelizzano e sono evangelizzati.
I genitori comunicano il vangelo ai figli e ricevono dai figli lo stesso vangelo profondamente vissuto. Una simile famiglia diventa evangelizzatrice di molte altre famiglie e dell’ambiente nel quale è inserita.
Le circostanze ci invitano a rivolgere una attenzione tutta speciale ai giovani. Il loro aumento numerico, la loro presenza crescente nella società, i problemi che li assillano devono risvegliare in tutti la preoccupazione di offrire loro, con zelo e con intelligenza, 1’ideale evangelico da conoscere e da vivere.
Occorre che i giovani, ben formati nella fede e nella preghiera diventino sempre più gli apostoli della gioventù. La chiesa fa molto affidamento su di loro e manifesta fiducia verso di essi. La presenza attiva dei laici nelle realtà del mondo è importante, ma non bisogna dimenticare l’altra dimensione: i laici possono sentirsi chiamati o essere chiamati a collaborare con i pastori nel servizio della comunità ecclesiale esercitando ministeri diversissimi.
Accanto ai ministri ordinati (vescovi, preti, diaconi, che hanno ricevuto il sacramento dell’ordine) la chiesa riconosce il ruolo di ministri non ordinati, per esempio quelli di catechista, di animatori della preghiera e del canto, di servizio alla parola di Dio, di assistenza ai fratelli bisognosi, di capi di piccole comunità, di responsabili di movimenti apostolici...
La chiesa ha in particolare stima tutti i laici che accettano di consacrare una parte del loro tempo, delle loro energie e, talvolta, la loro vita intera, al servizio delle missioni.
Per tutti gli operai della evangelizzazione è necessaria una seria preparazione, soprattutto per coloro che si dedicano al ministero della parola. L’arte di parlare ha una grandissima importanza.
Questa seria preparazione accrescerà la sicurezza indispensabile, ma anche l’entusiasmo per annunciare Gesù Cristo oggi.
Lo Spirito dell’evangelizzazione
L’evangelizzazione non sarà mai possibile senza l’azione dello Spirito Santo. Gesù ha iniziato la sua predicazione "con la potenza dello Spirito" (Lc 4,14).
Soltanto dopo la discesa dello Spirito Santo gli apostoli partono verso tutte le direzioni del mondo per cominciare la grande opera di evangelizzazione della chiesa.
Lo Spirito Santo che fa parlare Pietro, Paolo e gli altri apostoli, discende anche " sopra tutti coloro che ascoltavano il discorso" (At 10,44). Lo Spirito è l’anima della chiesa.
È lui che oggi come agli inizi della chiesa, opera in ogni evangelizzatore che si lasci possedere e condurre da lui, che gli suggerisce le parole che da solo non saprebbe trovare, predisponendo nello stesso tempo l’animo di chi ascolta perché si apra ad accogliere il vangelo e il regno. Le tecniche dell’evangelizzazione sono buone, ma non possono sostituire l’azione dello Spirito.
Anche la preparazione più raffinata dell’evangelizzatore non opera nulla senza di lui. Noi stiamo vivendo nella chiesa un momento privilegiato dello Spirito. Si cerca da per tutto di conoscerlo meglio, quale è rivelato dalle Scritture. Si è felici di mettersi sotto la sua mozione. Ci si raccoglie attorno a lui e ci si vuol lasciare guidare da lui.
Lo Spirito di Dio ha un posto eminente in tutta la vita dalla chiesa, ma agisce soprattutto nella missione evangelizzatrice: non a caso il grande inizio dell’evangelizzazione avvenne il mattino di Pentecoste, sotto il soffio dello Spirito.
Lo Spirito è l’agente principale dell’evangelizzazione e il termine dell’evangelizzazione: egli solo suscita la nuova creazione, l’umanità nuova con quella unità nella varietà che l’evangelizzazione tende a provocare nella comunità cristiana. Per mezzo di lui il vangelo penetra nel cuore del mondo. Il ruolo dello Spirito Santo è fondamentale: bisogna studiare meglio la natura e il modo di agire dello Spirito Santo nell’odierna evangelizzazione.
Gli evangelizzatori preghino incessantemente lo Spirito Santo con fede e fervore, si lascino prudentemente guidare da lui quale ispiratore decisivo dei loro programmi e delle loro iniziative, della loro attività evangelizzatrice.
Consideriamo ora la persona stessa degli evangelizzatori. Si ripete spesso che il nostro secolo ha sete di autenticità. Dei giovani si dice che hanno orrore del fittizio, del falso e ricercano la verità e la trasparenza. Tacitamente o con alte grida, ma sempre con forza ci domandano: Credete veramente a quello che annunciate? Vivete quello che credete? Predicate veramente quello che vivete?. La testimonianza della vita è diventata più che mai una condizione essenziale per l’efficacia profonda della predicazione.
Bisogna che il nostro zelo per l’evangelizzazione scaturisca da una vera santità di vita e che la predicazione, alimentata dalla preghiera e dall’amore all’eucaristia, faccia crescere in santità colui che predica.
Il mondo reclama evangelizzatori che gli parlino di un Dio che essi conoscono, che è loro familiare, come se vedessero l’invisibile (cf. Eb 11,27). Il mondo esige e aspetta da noi semplicità di vita, spirito di preghiera, carità verso tutti specialmente verso i piccoli e i poveri, ubbidienza e umiltà, distacco da noi stessi e rinuncia. Senza questo contrassegno della santità, la nostra parola difficilmente si aprirà la strada nel cuore dell’uomo del nostro tempo, ma rischia di essere vana e infeconda.
La forza dell’evangelizzazione risulterà molto diminuita se coloro che annunziano il vangelo sono divisi tra di loro da tante specie di rottura. Questo è uno dei grandi malesseri dell’evangelizzazione oggi. Se il vangelo che proclamiamo appare lacerato da discussioni dottrinali, da polarizzazioni ideologiche e da condanne reciproche tra cristiani in balia delle loro diverse teorie sul Cristo e sulla chiesa e anche a causa delle loro diverse concezioni sulla società e le istituzioni umane, come potrebbero coloro a cui è rivolta la nostra predicazione non sentirsene turbati, disorientati, scandalizzati? Il testamento spirituale del Signore ci dice che l’unità tra i suoi seguaci non è soltanto la prova che noi siamo suoi, ma anche che egli è l’inviato del Padre, criterio di credibilità dei cristiani e di Cristo stesso.
Gli evangelizzatori devono offrire una immagine di persone mature nella fede, capaci di trovarsi insieme al di sopra delle tensioni concrete, grazie alla ricerca comune, sincera e disinteressata della verità.
La sorte dell’evangelizzazione è legata alla testimonianza di unità data dalla chiesa. La divisione tra i cristiani è un grave stato di fatto che arriva a intaccare la stessa opera di Cristo: "Essa è di grave pregiudizio alla santa causa della predicazione del vangelo a tutti gli uomini e impedisce a molti di abbracciare la fede" (Conc. Vat. II, Att. Miss. d. Chiesa, 6).
"La riconciliazione di tutti gli uomini con Dio, nostro Padre, dipende dal ristabilimento della comunione di coloro che già hanno conosciuto e accolto nella fede Gesù Cristo come Signore della misericordia che libera gli uomini e li unisce nello Spirito di amore e di verità" (Bolla "Apostolorum Limina". Paolo VI 1974).
Il vangelo è parola di verità. Una verità che rende liberi (cf. Gv 8, 32) e che sola può donare la pace del cuore. Questo cercano gli uomini quando annunziamo la buona novella: verità su Dio, verità sull’uomo e sul suo destino misterioso, verità sul mondo. Da ogni evangelizzatore ci si attende che abbia il culto della verità. Il predicatore del vangelo sarà dunque colui che, anche a prezzo della rinuncia personale e della sofferenza, ricerca sempre la verità che deve trasmettere agli altri.
Egli non tradisce né dissimula mai la verità per piacere agli uomini, per stupire o sbalordire, né per originalità o desiderio di mettersi in mostra. Egli non rifiuta la verità; non offusca la verità rivelata per pigrizia nel cercarla, per comodità o per paura. Non trascura di studiarla; la serve generosamente senza asservirla.
L’opera dell’evangelizzazione suppone nell’evangelizzatore un amore fraterno sempre crescente verso coloro che egli evangelizza. L’apostolo Paolo, modello di ogni evangelizzatore, scriveva: "Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari" (1 Ts 2,8). Affetto non tanto di pedagogo, ma di padre e di madre (cf. 1 Ts 2,7.11; 1 Cor 4,15; Gal 4,19).
Un segno di amore, oltre al rispetto dell’altro, sarà lo sforzo di trasmettere ai cristiani non dubbi e incertezze nati da una erudizione male assimilata, ma alcune certezze solide, ancorate alla parola di Dio.
I fedeli hanno bisogno di queste certezze per la loro vita cristiana, ne hanno diritto in quanto sono figli di Dio che si abbandonano interamente alle esigenze del suo amore.
Tra gli ostacoli all’evangelizzazione ci limiteremo a segnalare la mancanza di fervore,tanto più grave perché nasce dal di dentro.
Essa si manifesta nella stanchezza, nella delusione, nell’accomodamento, nel disinteresse e, soprattutto, nella mancanza di gioia e di speranza.
Noi esortiamo tutti gli evangelizzatori ad alimentare il fervore dello Spirito. Questo fervore esige prima di tutto che ci sappiamo sottrarre agli alibi che possono sviare dall’evangelizzazione.
Si sente dire spesso: imporre una verità, sia pure quella del vangelo, imporre una via, sia pure quella della salvezza, è una violenza alla libertà religiosa.
E aggiungono: perché annunciare il vangelo dal momento che tutti sono salvati dalla rettitudine del cuore?
Sarebbe un errore imporre qualcosa alla coscienza dei nostri fratelli. Ma proporre a questa coscienza la verità evangelica e la salvezza in Gesù Cristo con piena sicurezza e nel rispetto assoluto delle libere scelte, non è attentato alla libertà religiosa, ma un omaggio a questa libertà, alla quale viene offerta la scelta di una via che gli stessi non credenti stimano nobile ed esaltante. È dunque un crimine contro la libertà altrui proclamare nella gioia, una buona novella che si è appresa per misericorda di Dio? E perché solo la menzogna e l’errore, la degradazione e la pornografia avrebbero il diritto di essere proposti e spesso, purtroppo, imposti dalla propaganda distruttiva dei mass-media, dalla tolleranza dei buoni e dalla temerità dei cattivi? Questo modo rispettoso di proporre il Cristo e il suo regno più che un diritto è un dovere dell’evangelizzatore. Ed è un diritto degli uomini suoi fratelli di ricevere da lui l’annuncio del vangelo di salvezza.
Questa salvezza Dio la può compiere in chi egli vuole attraverso vie straordinarie che solo lui conosce. Però non dimentichiamo che il Figlio di Dio è venuto apposta per rivelarci, con la sua parola e la sua vita, i sentieri ordinari della salvezza. E ci ha ordinato di trasmettere agli altri questa rivelazione con la sua stessa autorità.
Ogni cristiano approfondisca nella preghiera questo pensiero: gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla misericordia di Dio, anche se non annunciamo loro il vangelo; ma potremo noi salvarci se, per negligenza, per paura, per vergogna o in conseguenza di idee false, trascuriamo di annunziarlo? Sarebbe tradire la chiamata di Dio che per mezzo dei ministri del vangelo vuol far germinare la semente; dipende da noi che questa diventi un albero e produca tutto il suo frutto.
Conserviamo dunque il fervore dello spirito. Conserviamo la gioia di evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime. Possa il mondo del nostro tempo che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza, ricevere la buona novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del vangelo la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia di Cristo, e accettino di mettere in gioco la propria vita affinchè il regno di Dio sia annunciato e la chiesa sia impiantata nel cuore del mondo.
Una moltitudine di fratelli cristiani e non cristiani attendono dalla chiesa la parola della salvezza.
Nel programma di azione pastorale della chiesa l’evangelizzazione è l’aspetto fondamentale per questi anni che segnano la vigilia di un nuovo secolo, la vigilia anche di un terzo millennio del cristianesimo.
La santissima Vergine Maria, al mattino della Pentecoste, ha presieduto con la sua preghiera all’inizio dell’evangelizzazione sotto l’azione dello Spirito Santo; sia lei la stella della evangelizzazione sempre rinnovata che la chiesa, docile al mandato del Signore, deve promuovere e adempiere, soprattutto in questi tempi difficili ma pieni di speranza!

mercoledì 2 novembre 2011

Conoscerete la Verità e la Verità vi farà liberi...

“La verità vi farà liberi” Cristianesimo e libertà




Partiamo e soffermiamoci su un testo importante della Parola di Dio sul tema della libertà su cui cercheremo di farne emergere il contenuto, che è la verità nel suo rapporto con la libertà. Il testo è tratto dal Vangelo di Giovanni, in cui c’è l’affermazione: “La verità vi farà liberi”, frase suggestiva, ma anche oscura.

(Gv 8, 31-47) Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?». Gesù rispose: «In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre; se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. So che siete discendenza di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova posto in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro!». Gli risposero: «Il nostro padre è Abramo». Rispose Gesù: «Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo! Ora invece cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da Dio; questo, Abramo non l’ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero: «Noi non siamo nati da prostituzione, noi abbiamo un solo Padre, Dio!». Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alle mie parole, voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può convincermi di peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio».

Occorre esplicitare questo difficile testo per far emergere il rapporto tra verità e libertà, per spiegare perché non esiste libertà se non nella verità. Questo è uno dei punti essenziali della rivelazione cristiana. Qui si coglie uno dei punti essenziali del ministero di Cristo.
Questo discorso è fatto da Gesù a quei giudei che avevano creduto il lui, cioè che avevano incominciato a seguirlo. Lascia perplessi il fatto che questi giudei che lo seguono abbiano poi il desiderio di ucciderlo. La cosa si può spiegare nel fatto che questi giudei, pur seguendo Gesù, sono diventati sempre più perplessi; le sue parole non avevano trovato spazio nel loro cuore; probabilmente avevano seguito qualche loro progetto che poi non si stava realizzando e stavano chiudendo il loro cuore a Gesù, convinti che Lui non poteva più continuare così. Avevano, senza accorgersene, regredito; erano entrati in una sorta di realtà a lui ostile.
Gesù si rivolge a queste persone così: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli». Si diventa discepoli di Gesù soltanto prendendo dimora nella sua parola, accogliendola nelle profondità del cuore, cioè con grande fiducia e disponibilità in Lui. Solo così si diventa suoi discepoli e questo permetterà di conoscere la verità. Questa verità renderà libero il discepolo.
Questi giudei, però, si sentono già liberi, non schiavi di nessuno, sono discendenza di Abramo, appartengono al popolo eletto; come poteva Gesù dir loro che sarebbero in questo modo diventare liberi?
Le frasi che consideriamo sono: «la verità vi farà liberi» e «diventerete liberi». Per diventare liberi occorre lasciare che qualcuno operi nei nostri confronti in modo tale da renderci liberi; il soggetto è la libertà.
Poniamoci ora la domanda: «Che cosa significa essere liberi?» La risposta del Vangelo e di Gesù rimanda a essere lasciati resi tali a partire dalla verità. Qui s’introduce il tema del peccato: «Chi fa il peccato è schiavo del peccato». E se uno è schiavo non potrà entrare a pieno titolo nella casa; solo se uno è figlio lo potrà fare. Gesù aggiunge: «Se però il Figlio vi renderà liberi, lo sarete davvero». La prima sensazione è che non c’è un rapporto tra queste due affermazioni, ma, meditando queste parole si acquista la sensazione che c’è un rapporto tra la verità e il Figlio. Si ha ancora la sensazione che la verità ha a che fare con l’appartenenza alla casa di Dio, al prendere dimora là dove Dio abita; più precisamente, fare esperienza della sua paternità; il Gesù dice, infatti: «Se il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi». Gesù parla anche della paternità di Dio, in quanto quegli ebrei avevano affermato di non essere figli di prostituzione, di avere un solo padre, Dio. Il tema della paternità di Dio si collega al tema della figliolanza da parte di Gesù. Gesù spiega loro che non stanno facendo l’esperienza della paternità di Dio, quella sola che consente di essere veramente liberi. Spiega a quei giudei che l’esperienza della loro vita li faceva comportare in un modo che testimoniava che non erano liberi. Che erano nella condizione di chi non si lascia liberare e condurre nell’esperienza di vivere pienamente nella libertà. Che cosa stavano facendo questi giudei? Gesù dice: «Chi commette peccato, è schiavo del peccato», quindi non è libero. Chi commette peccato, la forma della sua vita è nel peccato, potrebbe credere, illudersi, dichiarare di essere libero, ma non lo è realmente.
Qui occorre porsi l’altra domanda: «Che cos’è il peccato?» La risposta a “fare il peccato” è molto meno difficile di quella a “che cos’è il peccato?” Quando si dice che uno è schiavo del peccato che significa? Che è condizionato dal peccato oppure che fa il peccato perché già prima era schiavo del peccato? Il peccato è solo l’atto peccaminoso che compie, oppure è anche tutto ciò che lo precede? La parola “peccato” è solo il singolare della parola più usata “peccati”, oppure essa non s’identifica solo con la singola azione che si commette? Probabilmente è il secondo caso. Gesù a questo punto si concentra su questa parola “peccato” che a suo giudizio non è separabile dalla parola “libertà”. Gesù continua: «Voi fate ciò che avete udito dal padre vostro». Gesù denuncia, svela a quei giudei la situazione in cui si trovano, che avevano progettato di ucciderlo. A questa intenzione ingiusta, che cosa sta dietro? Essi erano già nel peccato, anche se non lo avevano ancora commesso. L’avere coltivato tale intenzione già li aveva posti in una realtà di schiavitù, anche nell’illusione di essere liberi. Questa intenzione omicida rimanda a una paternità oscura, tenebrosa e mortale, perché volevano uccidere un uomo che aveva detto la verità ascoltata presso il Padre. C’è una contraddizione tra due paternità, mentre si parla di Chi è veramente Figlio. Qual è l’altra paternità? Gesù spiega: «Voi fate le opere del padre vostro». Essi ribattono: «Il padre nostro è Dio». Quando tutto questo è portato al suo epilogo, Gesù dichiara: «Voi provenite da quel padre che è il diavolo; volete dare attuazioni ai desideri – letteralmente da greco: alle passioni – del padre vostro»; sono i desideri ispirati dalla volontà di potenza.
Il termine “diabolus” significa “colui che separa”; significa il contrario della comunione. Il diavolo è colui che taglia le relazioni; interviene a isolare l’uomo chiudendolo su se stesso e impedendogli di vivere le tre relazioni fondamentali: con Dio, con l’altro e con le cose. Fa in modo che l’uomo condivida le sue “passioni” che diventano passioni mortali, distruttive, rispondendo a quella logica di autodeterminazione, isolamento, egoismo, assolutizzazione del proprio io. È tipico del “diabolus” di tagliare tutti e legami e di trovarsi da solo. Questo fa il diavolo in ambito umano, che la persona, credendosi libera, si consegni liberamente, ma in realtà come schiavo, alle sue “passioni” che lo porta ad agire in modo distruttivo, in questo caso a uccidere.
Perché queste persone vogliono uccidere Gesù? Solo per antipatia? Lo vogliono, invece, per ragioni che essi stanno coltivando dentro di sé e che hanno una radice velenosa. Ciò che Gesù offriva era diametralmente all’opposto di ciò che essi continuavano a desiderare. Del diavolo si afferma che egli è fin dal principio omicida, cioè che ha come fine la morte dell’uomo e che il suo modo di procedere è quello della menzogna, è mentitore per definizione. È padre della menzogna, ma nello stesso tempo può diventare padre degli uomini. Fa impressione il fatto che Gesù usi il termine di paternità e lo applica al diavolo; gli uomini possono essere figli del diavolo. C’è una specie di analogia tra l’essere figli del Padre che sta nei cieli e l’essere figli del diavolo. Qui s’intuisce che chi è figlio del Padre che sta nei cieli, è veramente libero, chi è figlio del diavolo non lo è.
Come si fa a capire chi è figlio del diavolo? Ci interessano le sue caratteristiche. Di Giuda il vangelo di Giovanni dice che Satana entrò in lui. Giuda diventa un indemoniato, pur mantenendo il suo aspetto normale, pur non schiumando. Però Giuda diventa l’omicida; consegna Gesù per essere crocefisso. Giuda, adagio, adagio, era entrato in sintonia con ciò che è diabolico, creando le condizioni affinché questo avvenisse. Giuda è diventato sempre più come il diavolo, fino al punto di identificarsi. Si usa il termine “desiderio” che è la tensione cui l’io è portato a guardare tutto a partire da sé nella ricerca spasmodica che l’io fa, per cui tutte le relazioni che vive sono del tutto funzionali a se stesso; tutto questo va sotto il nome di “passioni”. Su questo tema hanno riflettuto lungamente i padri della Chiesa. Essi hanno identificato otto passioni che sono poi diventate sette nel catechismo di san Pio X. Le abbiamo chiamate “i setti vizi capitali”. In essi c’è la ricerca esasperata dell’io che condiziona il soggetto in modo da renderlo schiavo, lasciandogli la convinzione di essere libero. Per peccato s’intende, allora, quella condizione che non consente all’uomo di essere autenticamente se stesso, di essere inconsciamente l’opposto. Bisogno di qualcuno che faccia capire questo all’uomo e, contemporaneamente, che qualcuno lo riscatti da tutto questo, da questa paternità distruttiva che fa leva sulle passioni del cuore, all’enigmatica tendenza dell’io a fare le cose per sé, a partire da sé, a sentirsi l’unico soggetto, a considerarsi l’assoluto e quindi a ottenere come esito ultimo la morte nella superbia, avarizia, lussuria ira, accidia gola, invidia, nelle passioni fondamentali. In tutto questo l’uomo è reso somigliante a Satana senza che se ne accorga, mentre, per orgoglio, afferma di fare quello che vuole e impedisce ad altri, a Dio stesso, di suggerirgli ciò che deve fare. La stessa legge diventa impotente.
Ci si muove veramente nel rapporto tra verità e libertà. Dove sta la verità dell’esistere dell’uomo? Dove è destinato a essere sempre? L’uomo ha la possibilità di essere se stesso, di stare dove egli è effettivamente nella verità? Lo può nell’esperienza della figliolanza con Dio Padre.
La sensazione qui è che il termine “libertà” sia relativo e non assoluto. È il modularsi dell’uomo alla verità di se stesso. È il sintonizzarsi con Dio e operare di conseguenza in maniera autodeterminata. Questa è la libertà. Non è il fare quello che si vuole, ma il volere ciò che è vero con la propria intelligenza, volontà, capacità di decidere, perché Dio non obbliga e nello stesso tempo chiama a partire da una realtà che ha già donato.
Alla domanda che fa Pilato nel vangelo di Giovanni: «Tu sei re?», Gesù risponde confermando che è re, è nato e venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità. Chi è nella verità ascolta la sua voce. Per capire in che senso Gesù è re bisogna chiamare in causa la verità ed anche per capire la verità bisogna chiamare in causa la sua regalità. Ma in che senso questa regalità chiama in causa la verità? Regalità significa che c’è un re che esercita il suo potere, è capace di custodire e difendere il suo popolo, di vincere anche contro i nemici. L’idea di regalità è quella di una potenza vittoriosa. Allora la verità è da intendersi nello stesso modo, non è una verità puramente filosofica, non è una dottrina. In Giovanni 14, 6 Gesù dice: «Io sono la via, la verità e la vita.» Lui è la verità. Se la verità ci farà liberi, significa che lo farà Lui. Lui dice: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Che significa “conoscere la verità?” Se essa fosse una dottrina, avrebbe significato lo studiarla; ma se non fosse una dottrina? Se la verità è la persona di Gesù, conoscere la verità non significa studiarla sui libri, ma accostare Gesù, creare un rapporto con Lui, ponendosi in suo ascolto, condividendo un’esperienza di vita con Lui come succede in ogni rapporto umano. Oggi noi possiamo accostare Gesù come ci accostiamo gli uni gli altri. La parola “verità”, dal greco andrebbe tradotta precisamente con il termine “rivelazione”. La frase andrebbe quindi tradotta cosi: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la rivelazione e questa rivelazione vi farà liberi». L’idea è quella di un segreto che viene comunicato, ma che ha in sé una potenzialità propria. Non è solo un far sapere, ma un comunicare, ove il soggetto è il Figlio. È un rivelare che è anche comunicare; il comunicare che il Figlio fa di se stesso agli uomini; ecco perché si parla di paternità, di paternità dignitosa che produce alle persone l’effetto di essere libere. La nostra libertà dipenderà dall’esperienza che facciamo della paternità di Dio e questa esperienza della paternità di Dio sarà possibile proprio attraverso quella rivelazione di essere figlio che Gesù ci dona. Condividendola, l’uomo ritrova se stesso e, lasciandosi ispirare da questa rivelazione che è in lui, che, essendo rivelazione regale, ha una propria potenza vittoriosa e rigenerante, l’uomo sarà portato ad agire conformemente al suo essere, in linea con quella comunione guadagnata del Figlio, con quella conoscenza del Padre, che poi gli impedirà di agire secondo le sue passioni e lo porterà a vivere pienamente e autenticamente puntando sulle relazioni, non più vivendo su di sé e auto-esaltandosi, ma aprendosi, dando piena espressione all’origine stessa del suo essere, del suo provenire da Dio. Saprà incontrare Dio, l’altro, le cose; tutto questo sarà compiuto a partire da ciò che è autentico in lui, che rimanda a quell’origine da cui proviene.
Questa verità è da intendersi come il comunicarsi del Figlio, che ha una potenza rigenerante, che riscatta l’uomo dalle illusorie pretese dell’affermazione dell’io che portano l’uomo all’annientamento di sé, mentre lo convincono del contrario.

Conclusioni:
  • Alla domanda: «Che cosa significa essere liberi?» si risponde che liberi si diventa.
  • Ci si può illudere di essere liberi; in realtà non lo si è affatto.
  • C’è un modo di agire, spesso inconsapevolmente distruttivo che si configura come l’assecondare le proprie passioni in vista di una presunta propria libertà e nella ricerca di una illusoria esperienza di vita. Cioè non è sufficiente dire: ” poiché io decido questo, dimostro di essere libero”; perché se quanto compio è una ricerca esasperata del mio io per assecondare le mie passioni, in questo modo io, pur partendo dalla mia libertà, mi dimostro schiavo.
  • Si aggiunge a questo quello che noi, con un termine non suo, abbiamo chiamato la “tentazione”. La tentazione fa parte dell’uomo così com’è. “Il demonio è menzognero fin dall’inizio”, cioè da quando l’uomo è quello che abbiamo conosciuto; esiste l’illusione di trovare la vita, mentre, in realtà, si va verso la morte. Il segreto del demonio è suscitare il desiderio; nella Genesi il demonio suscita il desiderio del frutto proibito: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?» Il desiderio è la tensione fortissima di mangiare dell’albero proibito; “sarete come Dio; si accorsero di essere nudi”.

Ci sono altri testi che trattano l’argomento verità e libertà, ma quello che abbiamo scelto colpisce per l’illusione della libertà, per la serietà del peccato. Il peccato rimanda alle passioni che portano al desiderio di glorificare se stessi per poi trasformarsi in una sorta d’isolamento totale in cui si vede solo il proprio io. Ancora: per evitare questo pericolo occorre lasciarsi raggiungere dalla rivelazione del Figlio entrando in sintonia con Lui. La potenza della manifestazione di bene di Dio si è svelata nella morte e risurrezione di Gesù. Si è svelata nel lasciarsi trafiggere di Gesù in mezzo a noi, in quel corpo da cui sono usciti quel sangue e quell’acqua. Quel corpo trafitto ha dietro un cuore, un’intenzione di amore nei confronti dell’umanità che ha svelato la paternità di Dio verso tutti gli uomini e che consente loro di ritrovarsi. Non si tratta di convincere teoricamente, ma di far percepire a una persona attraverso tutte le sue facoltà, non solo con passaggi razionali, la verità di quello che Lui è, il suo amore originario.
Questa paternità di Dio, rigenera l’uomo dalle sue passioni, lo guarisce e lo porta a desiderare, prima ancora di fare, ciò che è secondo Dio. In questo modo l’uomo si ritrova sempre più libero, capace di fare con convinzione secondo la verità di se stesso.
La verità per Gesù è l’attuarsi di ciò che è vero per l’uomo come una liberazione da parte di Dio.
L’uomo riceve questa continua rigenerazione, come grazia, tutto questo in dono nella realtà del Figlio, ma l’uomo deve consentire al dono di diventare realtà. Facendo questo l’uomo si accorge che la sua vita cambia e acquista la sua autenticità e si ritrova a non fare più ciò che prima non riusciva a non fare.
Al contrario chi, illudendosi di essere libero, fa scelte di schiavitù facendo il male. Crede di aver trovato la vita e invece sta morendo. Come si fa ad avvertire costui di quanto sta facendo? Non c’è altro modo che di offrirgli la liberazione. Fargli sentire la bellezza e la bontà di essere figlio di Dio in Cristo, offrirgli la testimonianza.
Verità, come comunicazione attraente che Dio fa all’uomo di se stesso cui è lasciata la libertà di acconsentire. Lasciar fare a Dio è la vera libertà che dà pienezza alla vera identità dell’uomo. Ascoltare la sua Parola potrebbe essere la forma per noi.

martedì 1 novembre 2011

LE BEATITUDINI






Le Beatitudini sono le grandi sconosciute dei cristiani.

Come mai quello che è il tema centrale dei vangeli è sconosciuto alle

persone?

Voi sapete che una delle critiche che è stata fatta alla religione è quella di

essere “oppio dei popoli”, cioè una sostanza che addormenta la gente ed il

cristianesimo fu tra i principali imputati di essere questa religione come

oppio dei popoli, ed in particolare proprio il contenuto delle beatitudini.

In effetti, se uno legge il vangelo, almeno nella traduzione o

nell’interpretazione del passato, legge “
beati i poveri, beati gli afflitti, beati

gli affamati...”
ed uno dice: ma dove siamo!

O questa persona che ha scritto queste cose, e che ha detto queste cose

non ha mai conosciuto i poveri, non sa che cosa è l’afflizione, non sa che cosa

è la fame.

E poi beati, perché? E la risposta, pronta, almeno la tradizione del passato:

“beati i poveri”, perché? Perché di essi è il regno dei cieli.

Cioè cosa significa? Vanno in paradiso, ma i poveri, che sono poveri ma

stupidi no, si domandavano: “Ma in paradiso guarda che ci vanno anche i

ricchi, anzi ci passano avanti, perché loro quando muoiono lasciano i soldi per

le messe e quindi noi siamo fregati di qui e di là”.

Allora le beatitudini sono state il grande fallimento del messaggio di Gesù;

perché sapete cosa successe in passato?

Chi era nella condizione di povertà, nella condizione di afflizione, nella

situazione di fame, appena gli si offriva anche una minima occasione di uscire

anche solo un po’ da questa situazione di povertà, di afflizione e di fame, ne

veniva fuori. Ma guarda che se non sei più povero non sei beato!

Ah, guarda, te la lascio tutta a te la beatitudine!

E d’altro canto coloro che non erano poveri né afflitti si guardavano bene di

diventare poveri, afflitti e affamati, per essere beati. E questo è stato il

fallimento del messaggio di Gesù ed ha portato alla non conoscenza di questo

messaggio.

3

Un po’ ovunque, se si chiede ai partecipanti delle conferenze quanti sono i

comandamenti di Mosè, tutti sanno che sono 10. Quando si chiede di

enunciarli, si fa un po’ di confusione, ma tutti e 10 vengono fuori.

Ma queste sono le leggi che Mosè ha dato al popolo di Israele, non la

proposta che Gesù ha fatto alla comunità cristiana.

Si vedrà tra poco che l’equivalente dei comandamenti per la comunità di

Matteo - perché tratteremo le beatitudini in Matteo - sono le beatitudini.

Ebbene, a malapena si trovano persone che sanno quante sono le beatitudini,

e quando si chiede di enumerarle, enunciarle, non si riesce ad arrivarci.

La prima la conoscono tutti perché è la più antipatica, poi viene fuori una

confusione. Le beatitudini non sono un qualcosa di appetibile, un qualcosa che

attiri l’aspirazione degli uomini.

Ma è possibile che Gesù abbia proposto un messaggio così alienante? É

possibile che Gesù sia il principale imputato per cui la religione è l’oppio dei

popoli? In realtà non è così.

Vedremo leggendo queste beatitudini, che esse sono tutte quante legate, ed

in particolar modo con la prima, vedremo che
il messaggio di Gesù non è

oppio dei popoli, ma è adrenalina per i popoli
, è quello che mette in circolo

energie, forze vitali capaci di cambiare la società; ecco perché l’ultima

beatitudine parla della persecuzione.

Vedremo almeno le linee principali di questo testo che per i credenti, se

conosciuto bene può rafforzare le ricchezze della propria fede, ma anche

per il non credente è la conoscenza di un testo di grande valore letterario,

perché gli evangelisti - lo sapete - erano dei grandi teologi, dei grandi

letterati che possono competere con i nomi mondiali della letteratura.

Esamineremo il testo di Matteo, perché ogni evangelista, ha un suo piano

teologico; allora è buona cosa, prima di affrontare la lettura di qualunque

brano del vangelo, cercare di capire quale è il piano teologico

dell’evangelista.

Cosa significa che ogni evangelista ha un suo piano teologico?

Che tutti gli evangelisti annunciano lo stesso identico messaggio, le forme, le

formule e i modelli per annunciarlo sono diversi secondo l’intento

dell’evangelista, secondo la sua statura teologica, letteraria, ma soprattutto

tenendo conto a chi andava il messaggio.

4

Ebbene, l’autore del vangelo di Matteo si rivolge ad una comunità di giudei

che hanno riconosciuto ed hanno accettato in Gesù il Messia atteso, ma a

condizioni che sia nella linea della tradizione, cioè sulla scia di Mosè e del

profeta Elia.

Allora l’evangelista compie un’abile opera didattica e letteraria per far

comprendere, sulla falsariga della vita degli avvenimenti di Mosè, che Gesù è

superiore.

Allora cosa fa questo evangelista?

Mosè si credeva a quel tempo fosse l’autore dei primi cinque libri della

Bibbia, quelli che sono conosciuti con il termine Pentateuco, cioè i primi

cinque libri che compongono la legge; allora Matteo compone la sua

opera dividendola esattamente in 5 parti, ognuna delle quali termina

con parole simili, identiche, con le quali terminava uno dei libri di Mosè.

Quindi il vangelo di Matteo è diviso in 5 parti.

Poi conosciamo tutti la storia di Mosè, l’avvenimento straordinario,

miracoloso, che lo salvò dall’ordine del Faraone di uccidere tutti i

bambini ebrei primogeniti; ed ecco perché soltanto in Matteo, e non

negli altri evangelisti, troviamo l’episodio della strage dei bambini di

Betlemme voluta da quello che generalmente viene presentato come il

nuovo Faraone, cioè, il potente, l’uomo del potere, e c’è solo in Matteo

perché vuol far vedere l’equivalente.

Poi il momento importante nella vita di Mosè è quando sale su un monte,

il Sinai, e li da Dio promulga l’alleanza con il popolo. Ebbene anche Gesù

in questo vangelo sale su un monte, ma non da Dio, ma Lui, che è stato

presentato sin dalle prime righe del vangelo come
il Dio con noi,

annuncia la nuova alleanza. Gesù è venuto a proporre una relazione con

Dio completamente diversa da come era conosciuta nel mondo giudaico.

Gesù è venuto a traghettare le persone dal mondo della religione a

quello della fede.
Quale è la differenza tra religione e fede? Per

religione si intende tutto ciò che l’uomo deve fare nei confronti di Dio;

questo con Gesù è terminato. Con Gesù inizia una relazione nuova con

Dio dove non conta più ciò che l’uomo fa nei confronti di Dio, ma nella

accoglienza di ciò che Dio fa per gli uomini. Allora la proposta di Gesù

5

non può essere catalogata nella categoria della religione, ma in quella

della fede.
E Gesù è venuto a proporre un nuovo rapporto con il

Padre, con Dio, che non è più basato sull’obbedienza della sua

legge, ma sulla accoglienza e sulla somiglianza del suo amore
. É

importante che abbiamo presente questa distinzione perchè, nel

giudaismo il credente era colui che obbediva a Dio osservando le sue

leggi. Se c’è una legge, significa che alcune persone per la loro

particolare situazione sociale, civile, religiosa, morale, sessuale, non

possono osservare questa legge, allora vengono discriminati non

potendo avere ciò che permette di avere il rapporto con Dio, dalla

comunione con Dio, e catalogati tra osservanti e non osservanti. Gesù

allora è venuto a cambiare il rapporto con il Padre, non più il credente,

colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi, ma colui che

assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo. Obbedire,

osservare certe leggi non a tutti è possibile, accogliere l’amore

immeritato, incondizionato del Padre è possibile a tutti quanti. Nella

prima categoria, quella religiosa vigeva il merito, l’uomo deve meritare

l’amore di Dio, e questo è ingiusto perché ci sono delle persone che per

la loro situazione non riescono a meritare l’amore di Dio; con Gesù

finisce la categoria del merito, l’amore di Dio non va più meritato, ma

va accolto come dono gratuito del suo amore. Questa è la novità

portata da Gesù e viene formulata dagli evangelisti secondo il loro

modello letterario che adesso vedremo.

Poi sapete che Mosè non riuscì ad entrare nella terra promessa, ma

morì sul monte Nebo. Ecco perché Gesù, soltanto nel vangelo di

Matteo, termina la sua azione conclusiva su un monte. Ma, mentre nel

libro del Deuteronomio quella che viene presentata è una scena di

morte di Mosè, con il bisogno di dare un successore che guidi il popolo

per entrare nella terra promessa, quella di Matteo termina sul monte;

ed è l’unico evangelista che termina la narrazione su un monte, ma non

c’è una scena di morte, bensì la scena di una vita che è stata più forte

della morte. E mentre Mosè ha avuto bisogno di un successore, Gesù

non ha bisogno di un successore. Le ultime parole che Gesù pronuncia in

6

questo vangelo “
ecco io sono con voi per sempre”, letteralmente fino

alla fine dei tempi, che non indica una scadenza, ma una qualità di

presenza. Gesù è sempre presente nella sua comunità.

Allora vediamo questo episodio; abbiamo visto Mosè che sale sul monte e da

Dio annuncia i comandamenti, i 10 comandamenti erano per un singolo popolo,

per il popolo di Israele.

La novità che ha portato Gesù è che sale su un monte, ma Lui che è Dio

annunzia un qualcosa di nuovo: le beatitudini.

Le beatitudini l’evangelista le costruisce con un grande capolavoro

letterario.

Anzitutto è importante il numero delle beatitudini: in Matteo sono 8.

Perchè questo numero?

Nel cristianesimo primitivo era importante perché era il numero, la cifra che

simboleggiava la resurrezione di Cristo.

Gesù è risuscitato il primo giorno dopo la settimana, cioè il giorno ottavo:

allora il numero otto nel cristianesimo primitivo ebbe la figura della

resurrezione.

Ecco perché nell’antichità i battisteri, cioè il luogo dove venivano battezzati,

avevano tutti quanti una forma ottagonale, perché il numero 8 indica la vita

indistruttibile.

Allora

mentre l’osservanza dei comandamenti garantiva lunga vita qui su

questa terra,

l’accoglienza delle beatitudini garantisce qui già da questa

esistenza una vita di una qualità che è indistruttibile.

Ecco perché Gesù quando parla della vita eterna non ne parla mai alla

maniera giudaica. Nel mondo giudaico la vita eterna era un premio futuro da

conseguire per la buona condotta nel presente.

Invece Gesù ne parla sempre al presente.

La vita eterna non è un premio nel futuro, ma una possibilità da sperimentare

ora. Chi accoglie il messaggio di Gesù e lo traduce in pratica sentirà liberare

dentro di lui certe energie, certe capacità, certe forze vitali d’amore che lo

portano già in una dimensione che è quella definitiva.

7

Allora l’evangelista calcola il numero delle beatitudini: 8, significando così

che la pratica, l’accoglienza di questo messaggio produce nell’uomo una vita

di una qualità tale che è indistruttibile.

Ma addirittura - potrà sembrare qualcosa di maniaco, di pignolo, ma era lo

stile letterario dell’epoca - l’evangelista calcola esattamente di quante

parole comporre le beatitudini. E per arrivare al numero voluto inserisce una

particella che di per se non era necessaria grammaticalmente, perché

l’evangelista compone le beatitudini con esattamente 72 parole.

Perché 72?

Perché secondo il computo che c’è nel libro del Genesi al cap. 10, le

popolazioni pagane conosciute a quell’epoca erano appunto rappresentate

dalla cifra 72, che sta ad indicare tutto l’universo conosciuto, il mondo

pagano.

Ricordate nel vangelo di Luca quando Gesù manda 72 discepoli?

Cosa vuol significare l’evangelista?

Mentre i comandamenti sono per un singolo popolo, Israele, le beatitudini

sono per tutta l’umanità, tutti possono accogliere questo messaggio.

La prima beatitudine non è stata collocata a caso, è la condizione perché

esistano tutte le altre ed è la beatitudine che crea più difficoltà. La

conosciamo, è quella della beatitudine dei poveri, è quella che ci sembra la

più antipatica.

“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”,
o letteralmente

“Beati i poveri per lo spirito, perché di questi è il regno dei cieli”

Mai, mai Gesù nei vangeli ha detto che i poveri sono beati, mai. Quindi

affermare che Gesù ha detto che sono beati i poveri, cioè quelli che la

società ha reso poveri, non è vero.

Mai Gesù nei vangeli dichiara i poveri beati. I poveri sono disgraziati

che è compito e responsabilità della comunità cristiana togliere dalla

condizione di povertà
.

Come è nata questa diceria che Gesù abbia esaltato la povertà?

Sapete che uno dei problemi che ha avuto la chiesa cattolica, è che il vangelo

fu scritto in greco (la lingua commerciale dell’epoca), ma nell’arco di pochi

decenni il greco tramontò come lingua internazionale e in occidente fu

8

soppiantato dal latino, in oriente dal siriaco, e nell’africa dal copto: allora ci

fu bisogno di tradurre i testi dall’originale nelle lingue parlate.

Nella traduzione dal greco al latino certe sottigliezze grammaticali, certe

finezze non poterono essere conservate, poi l’interpretazione che la chiesa

diede, fece si che per l’immaginario della gente Gesù avesse proclamato

“beati i poveri”.

Anzitutto le beatitudini sono scandite da questo invito: “beati”, “beati” per 8

volte.

Cosa significa il termine
beato (mak£rioj)?

A quell’epoca indicava la
felicità piena e totale che era la caratteristica

gelosa ed esclusiva delle divinità. Nel mondo pagano gli dei avevano delle

esclusive, una di queste era la felicità. Quando si accorgevano che sulla

terra qualcuno raggiungeva una soglia di felicità che loro giudicavano

esagerata, lo colpivano con qualche disgrazia.

Ebbene Gesù per 8 volte invita alla pienezza della felicità. Mentre la

religione promette una illusoria felicità, insegna la felicità nell’aldilà (soffri

di qua, sarai felice nell’aldilà), Gesù no, Gesù è venuto ad annunziare che è

possibile essere pienamente felici qui su questa esistenza.

Che ti interessa essere felice nell’aldilà se si soffre qui? Gesù è venuto a

proporre un nuovo tipo di rapporto con Dio, ma sopratutto un nuovo tipo di

relazione con le persone che renda possibile la felicità, non limitata, non a

metà ma una felicità piena e totale qui su questa esistenza.
Dio non è

nemico della felicità, Dio è l’autore della felicità, e desidera che questa

felicità sia la condizione di ogni uomo.

Allora Gesù per 8 volte invita alla pienezza della felicità qui su questa terra.

Ecco perché il messaggio di Gesù non è alienante, non è la promessa di una

felicità nell’aldilà, ma qui su questa terra.

Allora Gesù proclama beati, cioè pienamente felici chi?

I poveri di spirito”, o per lo spirito.

Quindi mai Gesù proclama beati i poveri semplicemente in questo caso i

poveri di spirito. Tutto sta a cercare di capire cosa significa questo poveri

di spirito, quindi non beati i poveri che la società ha reso tali, ma quelli che

sono poveri di spirito.

Dal punto di vista grammaticale “
Poveri di spirito” può significare:

9

deficienza dell’individuo: quelli che sono carenti di spirito, i deficienti,

e non sembra possibile che Gesù abbia proclamato beati i deficienti, i

tonti, poverini. Questi sono persone che è compito della comunità

cristiana aiutare e agevolare, ma non è certo l’aspirazione della

comunità cristiana.

Poveri nello spirito può significare atteggiamento spirituale; e guarda

caso questa è stata proprio l’interpretazione che venne scelta in

passato dalla chiesa. Cosa significa poveri nello spirito? Tu sei ricco,

mantieni le tue ricchezze, l’importante è che ne sei spiritualmente

distaccato, e non si è mai capito che cosa significasse per un ricco

essere spiritualmente distaccato delle sue ricchezze. La povertà di

spirito si trasformò in spirito di povertà. E questa guarda caso è stata

la versione che ha imperato nella chiesa in passato. Non si chiedeva ai

ricchi di rinunciare alla loro ricchezza, ma l’importante era che ne

fossero distaccati, magari ricordandosi ogni tanto di fare un offerta

di beneficenza per le opere della chiesa…. Ma siccome questa è la

beatitudine più difficile da digerire, sarà quella sulla quale Gesù

ritornerà più volte in questo vangelo. Quando Gesù chiede al ricco di

rinunciare alle sue ricchezze e questo rifiuta e se ne va via, Gesù non

gli corre dietro cercando di attenuare la sua esigenza. Non è che gli

dice: “tienile, l’importante è che ne sei distaccato spiritualmente”. Il

distacco dalle ricchezze è immediato, effettivo e radicale. Quindi

Gesù non richiede un distacco spirituale, ma un distacco reale.

Poveri per lo spirito, può significare scelta esistenziale; cioè non

persone che la società ha reso povere, ma
persone che per lo spirito,

cioè per la forza interiore, scelgono loro volontariamente di

entrare nella condizione della povertà
.

Ma cosa significa entrare nella condizione della povertà?

Al termine delle beatitudini c’è la reazione un po’ sorpresa della gente, e

Gesù dichiara:
non pensate che io sia venuto ad abolire la legge ed i profeti,

cioè le due parti che componevano l’AT,
ma sono venuto a portarla a

compimento
. Gesù è venuto a realizzare pienamente il disegno di Dio

sull’umanità che già Mosè aveva espresso, cioè che nel mio popolo nessuno sia

10

bisognoso. Questa è la volontà di Dio. Sapete che a quell’epoca ogni nazione

aveva la sua divinità, e come si faceva a credere quale fosse, non tanto la

divinità vera, perché credevano che fossero tutte vere, ma quale è il Dio più

importante?

Ebbene la sfida d’Israele era questa: se nel popolo nessuno sarà bisognoso,

la gente dovrà credere che veramente il dio di Israele è quello vero.

Ecco perché nella primitiva comunità di Gerusalemme, scrive l’evangelista

Luca che testimoniavano con grande forza la resurrezione di Gesù, come?

Non con un catechismo, con proclami, ma infatti tra di loro nessuno era

bisognoso. L’unica prova che Cristo è risorto, è che nella comunità non ci

sono persone che hanno e persone che non hanno. Alla cena della comunità

nessuno è bisognoso, unica prova, non ce ne sono altre. E Gesù è venuto a

portare a compimento questo, a realizzare questo, solo che è difficile.

Quando vai a toccare il portafoglio delle persone, cari miei, questo è un

argomento che non va.

C’è nel vangelo di Luca, e sembra quasi umoristico, Gesù è seguito da una

folla enorme perché va a Gerusalemme dove pensano di andare a conquistare

e dividere il bottino.

E Gesù fa 3 tappe e dice:

guardate che vado a Gerusalemme a soffrire (e siamo pronti a soffrire

con te)

forse sarò messo a morte (siamo pronti a morire per te)

adesso chi non vende tutto quello che ha, non pensi di seguirmi.

Caro Messia, vai a Gerusalemme, poi quando l’hai conquistata mi mandi una

cartolina…. La folla lo ha abbandonato.

Quando tocchi l’interesse, e questo è talmente vero che la comunità

cristiana è riuscita a trasformare nel suo significato anche la preghiera del

Padre Nostro. Quando nel Padre Nostro Gesù afferma in quella richiesta:
e

rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori
, non sta

trattando del perdono delle colpe, non sta trattando di qualcosa di

spirituale, ma qualcosa di molto concreto: la cancellazione reale e radicale

dei debiti.

Perché Gesù fa cosi?

11

Abbiamo visto che il Signore attraverso Mosè aveva emanato la speranza,

l’ideale: nessuno nel mio popolo sia bisognoso. Allora che cosa avevano fatto,

avevano fatto la legge che ogni 7 anni tutti i debiti venivano cancellati. La

legge era buona, la realtà peggiorò la situazione dei bisognosi. Ma chi era

quel matto che andava a prestare allo scadere del sesto o settimo anno, e

poi il debito veniva cancellato? E chi era quello che prestava a chi sapeva che

non aveva le garanzie certe e sicure di avere indietro il prestito? Quindi

questa legge che era stata a favore dei poveri, si ritorse contro di loro.

Ma Gesù l’ha ripescata, ma non ogni 7 anni, ma come pratica abituale che è il

riconoscimento della comunità. Cancella a noi i nostri debiti, si riteneva nella

concezione dell’epoca che l’uomo fosse debitore verso il Signore per la vita,

la natura, come noi abitualmente cancelliamo i debiti degli altri. Ma debiti

economici, perché forse è più facile (anche se difficile) perdonare una colpa

piuttosto che cancellare un debito, specialmente se è rilevante. E questo

insegnamento di Gesù è stato quindi spiritualizzato.

Allora Gesù in questa beatitudine che cosa chiede? Quelli che liberamente,

volontariamente, per lo spirito, (la forza interiore) entrano nella categoria di

povertà, ma non per andarsi ad aggiungere ai tanti poveri che ci sono nel

mondo, altrimenti è inutile, Gesù cosa sta chiedendo? Non sta chiedendo ai

suoi di spogliarsi, ma di vestire chi è nudo, ed ognuno di noi può vestire

qualcuno che è nudo senza bisogno di spogliarsi. Gesù sta chiedendo, la

categoria della povertà va compresa e ritradotta nella nostra cultura,

abbassate il vostro livello di vita per permettere a quelli che lo hanno

troppo basso di innalzarlo
.

Come Gesù stesso che, secondo il NT, da ricco che era si è fatto povero

perché i poveri fossero ricchi. Gesù, il Signore, vuol far entrare tutti quanti

nella categoria dei signori, ma non dei ricchi.

Gesù è severo con i ricchi, tanto che dice che nessun ricco entra nel regno

dei cieli: perché nessun ricco può entrare nella sua comunità nel regno dei

cieli?

Che cosa significa che Gesù il Signore ci invita ad entrare nella categoria dei

signori? Il signore è colui che dà, e tutti possiamo essere signori. Il dare non

dipende dalla salute, non dipende dalla cultura, non dipende neanche da

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quello che ha. Tutti siamo chiamati ad essere signori, quindi Gesù il Signore

ci invita ad essere signori.

Ed il ricco chi è? É colui che ha e trattiene per sè.

Allora per Gesù non c’è posto per il ricco nella sua comunità, perché la

comunità di Gesù è composta da signori, ma non da ricchi. A quell’epoca

c’erano i poveri di Jahvè quelli cioè che si fidavano del Signore per uscire

dalla povertà; ma qui con Gesù succede il contrario, ci sono quelli che si

fidano talmente del Signore che decidono loro di entrare nella povertà.

I poveri per lo spirito sono quelli che liberamente, volontariamente, per

amore si sentono responsabili della felicità e del benessere degli altri
.

Ebbene dal momento che capita questo, Gesù dice “
beati perché di essi è il

regno dei cieli.

Ed allora ci risiamo: siccome abbiamo questa immagine spiritualizzata

rientra di nuovo l’aldilà?

No, Matteo è l’unico evangelista che adopera la formula “regno dei cieli”, non

esiste negli altri evangelisti.

Là dove gli altri parlano di “regno di Dio”, Matteo usa la formula “regno dei

cieli” perché scriveva per dei giudei ed i giudei evitavano di nominare ed

anche scrivere il nome di Dio.

Allora Matteo, tutto teso a non urtare la loro suscettibilità, tutte le volte

che può sostituisce il termine “Dio” con il termine “cieli”.

Lo facciamo anche noi nella lingua italiana, solo che non ce ne accorgiamo

quando diciamo: “grazie al cielo”: mica ringraziamo l’atmosfera, ma grazie a

Dio. Oppure: “che il ciel non voglia”, cioè Dio non voglia.

“Regno dei cieli” non è l’aldilà, ma il regno di Dio.

Che cosa significa regno di Dio? Israele veniva da una esperienza disastrosa

della monarchia, Dio non aveva voluto la monarchia, perché Dio non tollera

che ci sia un uomo che possa comandare su altri uomini, ma Israele l’ha

voluta nonostante la contrarietà del Signore. Ed il Signore attraverso i

profeti dice: guardate che i vostri re prenderanno i vostri figli per farne

guerrieri, le vostre figlie per farne le loro serve, prenderanno i vostri campi

migliori…Non ci importa, noi vogliamo un re come gli altri popoli.

Ed è stato l’inizio della disgrazia nazionale di Israele. Un re peggio dell’altro

che poi portò ad una lotta fratricida fra i vari regni, e le potenze vicine

13

occuparono ed assorbirono poi Israele. Allora fece sì che si proiettò in Dio il

re ideale, ed il re ideale era colui che si occupava dei poveri e degli

emarginati.

Allora dire che “di essi è il regno dei cieli”, significa che Dio era il loro re,

cioè, che queste persone sono governate direttamente de Dio, e Dio non

governa emanando leggi che gli uomini devono osservare, ma comunicando il

suo spirito.

Allora questa prima beatitudine, che ha il verbo al presente, non dice che di

essi sarà il regno dei cieli, cioè un domani, ma è immediato.

Se c’è un gruppo – attenzione, non un individuo: le beatitudini non sono mai

rivolte ad un singolo individuo, ma sempre ad una pluralità - Gesù non viene a

dire beato chi, ma beati voi.

Perché Gesù parla al plurale?

Non gli serve una persona che faccia questo, perché Lui vuol incidere

profondamente nella società per cambiarne radicalmente il volto, ed allora

ha bisogno di un gruppo, di una comunità.

Ebbene Gesù assicura questo: se c’è un gruppo di persone che oggi,

immediatamente che sceglie liberamente, volontariamente per amore di

essere responsabile della felicità e del benessere degli altri, da quel

momento succede qualcosa di straordinario, Dio si prende cura di loro; è

un cambio meraviglioso. Se noi ci prendiamo cura degli altri, finalmente

permettiamo a Dio di prendersi cura di noi.

Allora sapete cosa succede?

Che si passa dal credere che Dio è Padre a sperimentarlo: è grande la

differenza. Quando si chiede alla gente, ai cristiani, se credono che Dio è

Padre normalmente tutti dicono si. È un po’ più difficile quando si chiede

loro: “ma lo hai sperimentato come Padre?” e qui nascono i problemi. È la

tragedia di noi cristiani: ci hanno imbottito di ideologie, ma non ci hanno

trasmesso esperienze vitali; ci hanno fatto credere che Dio è Padre - ed è

giusto - ma non ce lo hanno fatto sperimentare.

Ecco come si può sperimentare, se ci prendiamo cura e diventiamo

responsabili della felicità e del benessere degli altri, da quel momento

esatto permettiamo a Dio di prendersi cura Lui della nostra felicità, e la vita

cambia perché si sperimenta quotidianamente, anche negli aspetti minimi

14

insignificanti dell’esistenza, la presenza tenera di un Padre che in qualunque

situazione lo senti che ti sussurra: “non ti preoccupare, fidati di me”.

Questo non significa che vengono tolte le difficoltà, le avversità che la vita

fa incontrare, ma c’è una forza nuova, una capacità nuova per viverle.

Ecco la prima beatitudine. Gesù è molto chiaro.

Quelli che liberamente, volontariamente per amore decidono oggi, in

questo momento, di essere responsabili della felicità degli altri, beati

perché di questi, ma non degli altri, si prende cura Dio
(Questo è il

significato del regno dei cieli).

Se c’è questo, ecco che vengono tutte le altre beatitudini, tutte le altre

beatitudini sono condizionate dalla prima.

La prima ha il verbo al presente, tutte le altre, meno l’ultima, hanno il verbo

al futuro.

Nelle altre beatitudini l’evangelista presenta da prima situazioni negative

dell’umanità che sarà compito della comunità che ha scelto la prima

beatitudine di eliminare.

La prima di queste situazioni di sofferenza dell’umanità è:

Beati gli afflitti, perché saranno consolati”. o letteralmente “Beati gli

afflitti, perché questi saranno consolati”

Gesù afferma beati gli afflitti o gli oppressi (il termine
penqoàntej può

essere tradotto in entrambe le maniere), perché questi saranno consolati.

Anche qui non significa che i disgraziati di questo mondo un domani nell’aldilà

saranno consolati. Ma che gli interessa a chi in questo momento soffre, a chi

in questo momento piange, a chi gli interessa sapere che un domani saranno

consolati?

E poi Gesù non parla di conforto, ma di consolazione che è qualcosa di

diverso.

Conoscete certamente il libro di Giobbe, questo uomo pio al quale capitano

tutte le disgrazie di questo mondo: gli bruciano i campi, muore il bestiame,

muoiono i figli, crolla la casa, gli sopravvive la moglie…

Ebbene da Giobbe vanno tre amici, tre persone pie, le persone più pericolose

da incontrare nei momenti di difficoltà, e lo vanno a confortare. E sapete

cosa dice Giobbe?

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Ho avuto tante disgrazie, ma mai grande come questa di voi che siete venuti

a confortarmi, perché anch’io se fossi al vostro posto saprei usare le vostre

parole.

Gesù non parla di un’afflizione qualunque, non parla di una tristezza

qualunque, ma l’evangelista prende questa espressione dal libro di Isaia al

cap. 61, dove si dichiara che il giorno della venuta del Messia sarà per

consolare tutti gli afflitti.

Allora questa beatitudine di Gesù (“beati gli afflitti”) si rivolge ad una

categoria particolare di afflitti e di oppressi. Qui non si parla di una

qualunque afflizione, un rapporto difficile con un’altra persona o una

situazione dolorosa; gli afflitti di cui parla Isaia è il popolo che è oppresso

da due realtà che non fanno che peggiorare la sua situazione:

1. esternamente una dominazione pagana

2. e internamente l’oppressione dei capi religiosi

Fanno si che il popolo sia in una situazione di afflizione e oppressione che

non può far a meno di gridare la propria disperazione. Tanto vero che nel

vangelo di Luca questa beatitudine ha il termine “
beati coloro che piangono”:

non sono le persone depresse, sono persone che sono talmente schiacciate

da una situazione ingiusta politica, economica e sociale che non possono non

gridare tutta la loro disperazione.

Allora Gesù non proclama beati gli afflitti, dice gli afflitti, quelli che vivono

questa situazione, quelli che la società ha schiacciato dal punto di vista

economico, politico, sociale, religioso, queste persone che sono talmente

schiacciate, non sono beati perché sono afflitti (la beatitudine non si

riferisce mai alla condizione, è sempre nel secondo termine), ma coloro che

vivono questa condizione di afflizione beate perché – e l’evangelista, grande

teologo e letterato, usa attentamente i termini per le sue beatitudini, non

adopera il verbo confortare (
™niscÚw), ma il verbo consolare (parakalšw)

che significa l’eliminazione alla radice della causa della sofferenza
.

Tutte queste beatitudini sono condizionate dalla prima; se c’è un gruppo di

persone, una comunità che incomincia a prendersi cura di coloro dei quali

nessuno si occupa, quelle persone che soffrono al punto di dover gridare per

tutta la loro disperazione, beati perché grazie a questa comunità che si

prenderà cura di loro vedranno la fine delle loro afflizioni.

16

Quindi non è un messaggio alienante, un messaggio spiritualizzante, un

messaggio che rimanda alla consolazione nell’aldilà, ma un messaggio

immediato. C’è tanta gente che è disperata che grida nella disperazione, e

attende il nostro impegno, e noi dobbiamo essere coloro che mettono la

parola fine alla loro sofferenza. Quindi gli afflitti, beati perché vedranno la

fine della loro afflizione.

Adesso c’è una beatitudine della quale non si capisce il rapporto tra la

situazione di sofferenza e la promessa di liberazione.

Abbiamo visto che nelle beatitudini c’è una situazione negativa con una

promessa di una soluzione, quindi coloro che scelgono di essere poveri, le

conseguenze negative di questa scelta verranno eliminate perché Dio è il

loro re, quindi ai poveri è promesso il regno.

Abbiamo visto che gli afflitti saranno consolati, poi vedremo che gli

affamati saranno saziati, e qui non si capisce perché questa beatitudine è:

“Beati i miti perché erediteranno la terra”.
o la traduzione letterale “Beati i

miti perché questi erediteranno la terra

Cosa c’entra la terra con la mitezza non si capisce. Quindi è chiaro, nelle

altre beatitudini abbiamo la situazione negativa con la promessa di una

liberazione positiva, ma qui non si capisce. Nel passato, e quando critico il

passato non è tanto una critica per una malafede del passato, non avevano gli

strumenti. Sapete che fino a praticamente 40 anni fa non c’era ancora il

testo integrale del NT greco. È stato con il Concilio Vaticano II che la

chiesa cattolica è tornata al testo greco; pensate che la prima edizione del

testo greco del NT è del 1975, cioè l’altro ieri. Non c’erano le possibilità di

queste conoscenze profonde del vangelo. Allora in passato non

comprendendo questa beatitudine, la terra era stata trasfigurata nell’aldilà,

con la mania del paradiso, e i miti erano i sottomessi, gli obbedienti

soprattutto all’autorità ecclesiastica.

Ma torniamo a Matteo che anche in questo caso si rifà alla storia di Israele,

e sta citando il salmo 37,11.

Nella storia di Israele si era verificato che quando il popolo era entrato

nella terra di Canaan, la terra fu divisa secondo le tribù e ogni tribù la divise

17

secondo i clan, i clan divisero la terra secondo le famiglie in modo che ogni

famiglia avesse un pezzo di terra.

La terra è importante in oriente; un uomo senza terra è un uomo senza

dignità - e questo fa comprendere anche quando i palestinesi si vedono

confiscati la terra - non è solo un appezzamento di terra, ma la vita, la

dignità perché, se un uomo ha terra, lavora e quindi può nutrire e mantenere

bene la propria famiglia; se non ha terra, nulla di tutto questo accade. Il

possesso della terra è importante in quella società.

Ma dopo la divisione è successo che nel giro di 2 o 3 generazioni i più

prepotenti, i più bravi, i più astuti, i più disonesti si impossessarono della

terra delle persone meno capaci, delle persone meno furbe e delle persone

più deboli. Il risultato fu che gran parte della terra fu posseduta da

pochissime famiglie e la gran parte della gente era costretta ad andare a

lavorare come bracciante nella terra che era stata di loro proprietà. Una

situazione di totale ingiustizia, ed allora queste persone che erano state

espropriate della loro terra protestavano e per calmarli, sempre le persone

pie (attenti alle persone pie! Evitatele nei momenti difficili, sono sempre le

persone più pericolose) arrivano a dire con il salmo 37 che fa tutto un

panegirico e dice: no, non prendetevela con i ricchi perché non sapete quanto

soffrono poveri ricchi; voi state buoni, state calmi e tranquilli (ecco la

religione oppio dei popoli!) perché erediterete un terreno; cioè state buoni,

lasciate fare a Dio che Lui distribuirà secondo giustizia e vedrete questi

ricchi quanto soffriranno e a voi sarà dato un terreno.

Quando? Ah, questo non si sa, lasciamolo fare a Dio, e la situazione rimase

invariata.

Questo il salmo 37.

Allora questi “miti” non indica una qualità morale dell’individuo, ma una

situazione sociale disperata; è la stessa differenza che c’è tra l’umile e

l’umiliato: qui non si tratta di umili, ma si tratta di umiliati. Per una migliore

comprensione di questa beatitudine potremmo tradurla con “i diseredati”,

quelli che hanno perso tutto, può darsi per colpa propria, per incapacità.

Ma Gesù dice, i diseredati, quelli che sono stati espropriati di tutto,

compresa la dignità, ebbene beati perché erediteranno la terra (e l’articolo

determinativo significa la totalità).

18

E si ritorna alla prima beatitudine: se c’è una comunità di persone che si

impegna a sentirsi responsabile della felicità degli infelici di questo mondo, i

diseredati, quelli che hanno perso tutto, hanno perso l’onore, hanno perso la

dignità umana, non sanno neanche più cosa significa essere una persona

dignitosa, questi nella comunità ritroveranno non un terreno, un po’ di

dignità, ma la terra, la totalità; cioè nell’ambito della comunità delle

beatitudini, i diseredati ritroveranno una dignità che non avevano mai

conosciuto nella vita, neanche prima di perderla, perché vengono trattati con

amore verranno trattati con una devozione che non avevano mai

sperimentato.

Vedete che non sono beatitudini alienanti, ma beatitudini che coinvolgono, ci

sono i diseredati del mondo e, purtroppo da quando sono state pronunciate le

beatitudini, continuano ad esserci.

È compito della comunità cristiana che a queste persone che vivono senza

alcuna dignità, venga fatta ritrovare non una briciola di vita, ma la pienezza

della vita.

Le beatitudini degli afflitti e dei diseredati vengono poi riassunte

dall’evangelista in una terza beatitudine. C’è tutto uno schema con il quale

l’evangelista costruisce le beatitudini, e la successiva è:

“Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati”, o

letteralmente
“Beati gli affamati e assetati della giustizia, perché questi

saranno saziati”
.

L’evangelista ha presentato 2 situazioni di ingiustizia (gli afflitti, e i

diseredati), e le riassume in una terza beatitudine.

Quelli che ne fanno una questione vitale di riportare dignità a chi dignità non

ce l’ha, quelli che fanno una questione vitale di liberare dall’oppressione gli

oppressi, ebbene questi - assicura Gesù - in questa comunità (perché tutto

dipende dalla prima beatitudine) in una comunità di gente che ha rinunciato

all’ambizione, dall’avere di più, dall’arricchire, dall’essere di più degli altri ed

ha capito che
la felicità non consiste in quello che si ha, ma in quello che

si dà,
saranno felici qui pienamente su questa terra.

E ce lo dice pure, oltre la beatitudine, una frase di Gesù negli Atti degli

Apostoli, che purtroppo è sempre stata trasmessa senza il risalto che

19

merita. Gesù dice: “
c’è più gioia nel dare che nel ricevere”, ecco qui la

felicità.

Molti non sono felici perché pensano che la felicità consiste in ciò che gli

altri devono fare per noi. Allora rimani sempre deluso perché gli altri non

possono sapere ciò che lui aspetta, ciò che lui desidera e ciò che lui spera.

Chi pensa che la sua felicità dipenda da quello che gli altri devono fare per

lui rimane sempre deluso.

Allora
Gesù dice: no, la felicità non consiste in ciò che gli altri faranno

per te, in ciò che riceverai, ma in ciò che tu donerai.
Allora la felicità è

piena immediata e totale, la felicità consiste in ciò che si fa per gli altri; se

io non so quello che gli altri possono fare per me, so ciò che io posso fare

per gli altri.

Quindi l’invito di Gesù è per la pienezza della felicità, e se c’è una comunità

che si occupa della felicità degli altri, in questa comunità quelli che fanno

una questione vitale fame e sete di questa giustizia, saranno pienamente

saziati (e qui bisognerebbe tradurre con un verbo italiano ormai un po’ in

disuso, perché il termine che usa l’evangelista è il verbo
cort£zw che si usa

per gli animali che mangiano sino a scoppiare, e si potrebbe dire satolli): cioè

gli affamati e gli assetati, saranno saziati sino a scoppiare.

Ed è importante che questo verbo, essere satolli, essere sazi, l’evangelista lo

riporta in un episodio importante: quello della condivisione dei pani e dei

pesci dove quelli che mangiarono furono satolli (Mt 14,20). L’evangelista con

questa tecnica letteraria (adoperando questo verbo solo in questi due

episodi) ci fa comprendere
che si sazia la propria fame e sete di

giustizia, saziando la fame fisica degli altri
, ma sopratutto Gesù

garantisce che all’interno della sua comunità non ci sarà nessuna forma di

ingiustizia, ogni forma di ingiustizia sarà messa fuori dalla porta.

E per questo Gesù prenderà delle precauzioni purtroppo inascoltate.

Gesù dirà ai suoi: attenzione! Non fatevi chiamare da nessuno padre, perchè

l’unico Padre è quello nei cieli; non fatevi chiamare da nessuno maestro

perché l’unico maestro sono io.

Piccola nota: sapete che nel mondo religioso l’addetto alla formazione dei

novizi si chiama padre maestro…

E’ pazzesco, come se Gesù non avesse mai parlato!

20

Quindi Gesù, per evitare ranghi e gerarchie all’interno della sua comunità, ha

preso queste precauzioni. Gesù ci assicura che quelli che fanno una questione

vitale di queste forme di giustizia (se c’è una comunità che ha fatto queste

scelte) beati perché saranno pienamente saziati.

E dopo aver presentato le situazioni negative dell’umanità, l’evangelista

presenta gli effetti positivi all’interno della comunità negli individui che

hanno fatto questa scelta.

Ricordate che Matteo scrive sul modello delle opere di Mosè che, dopo aver

annunziato i comandamenti, proclama una specie di credo di accettazione di

questi comandamenti, che in ebraico si chiama lo “shemà Israel” (ascolta

Israele).

Ebbene, Matteo fa lo stesso: dopo la proclamazione delle beatitudini,

presenta il Padre Nostro.

Il Padre Nostro non è una preghiera, ma è la formula, sotto forma di

preghiera dell’accettazione delle beatitudini, tanto è vero che a ogni

beatitudine corrisponde una richiesta del Padre Nostro.

E come nel Padre Nostro le prime richieste riguardano l’umanità, il regno e

dopo le altre richieste riguardano la comunità, ugualmente si ha qui nelle

beatitudini.

Quindi

nella prima parte delle beatitudini abbiamo visto situazioni di

sofferenza dell’umanità che è compito della comunità cristiana

eliminare;

ora si passa a vedere gli effetti all’interno della comunità.

E la prima della seconda parte è
:

“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia
.” e letteralmente

“Beati i misericordiosi, perché questi riceveranno misericordia”
.

Attenzione, perché le beatitudini che esamineremo adesso non riguardano

categorie differenti di persone: i misericordiosi, i puri di cuori, i costruttori

di pace.

Non sono categorie diverse, sono tutti effetti che avvengono nell’individuo e

nella comunità che hanno accolto la prima beatitudine; quindi chi sceglie la

21

prima beatitudine e liberamente sceglie di entrare nella condizione di

povertà per permettere ai poveri di uscirne, chi si rende responsabile della

felicità degli altri, questi individui sono a loro volta tutti quanti

misericordiosi, puri di cuore, costruttori di pace.

Quelle che l’evangelista enumera, non sono qualità degli individui, ma

caratteristiche che diventano riconoscibili.

Allora la prima caratteristica è i misericordiosi.

Misericordioso (
™le»mwn) non significa uno che è di sentimento

misericordioso
, ma uno che opera attivamente per aiutare gli altri.

La misericordia non è un sentimento, ma una azione concreta con la quale si

aiutano gli altri ad uscire da una situazione di difficoltà.

Allora Gesù assicura: i misericordiosi - che non è una qualità dell’individuo,

ma una caratteristica che li rende sempre riconoscibili - sono persone sulle

quali si può sempre contare; quindi non è un gesto di carità una volta tanto,

ma è il gesto abituale che lo rende riconoscibile; io so che quella persona è

sempre pronta sempre disponibile ad aiutare.

Allora Gesù dice: i misericordiosi, quelli sempre pronti ad aiutare, beati

perché troveranno misericordia, cioè ogniqualvolta si troveranno loro nella

situazione di difficoltà, di necessità, troveranno aiuto da parte di Dio da

parte della comunità.

Ecco il cambio che si diceva all’inizio: se noi ci sentiamo responsabili della

felicità degli altri, permettiamo a Dio di esserlo della nostra; è un cambio

meraviglioso.

Perché per quanto noi possiamo occuparci della nostra persona, della nostra

felicità, noi non ci conosciamo come ci conosce Dio. Gesù ha detto che

conosce anche i capelli che sono nel nostro capo; quindi l’azione di aiuto di

Dio, supererà sempre la nostra azione di aiuto agli altri e soprattutto darà

sempre molto di più.

C’è nel vangelo di Marco un’immagine molto bella che spesso non compresa

nel lessico, nel linguaggio dell’epoca, viene interpretata erroneamente.

Conoscete quando Gesù dice: “
la misura con la quale misurate sarete misurati

e vi verrà dato in aggiunta”
?

Che cosa è questa misura?

22

Nei negozi alimentari (fino a 30-40 anni fa), i prodotti erano venduti sfusi,

non erano impachettati, confezionati. Si chiedeva 1 centimetro di olio, 2 etti

di farina,.. e per quantificare questi alimenti c’erano dei contenitori chiamati

misure. C’era il contenitore che riempito corrispondeva a 500 grammi di

farina, questa era la misura. E Gesù sta parlando di cose che tutti capivano,

e ci assicura che la misura che voi misurate, vi viene data, quindi ciò che noi

diamo agli altri, quello non è una perdita, perché quello ci viene ridato, ma

Dio regala vita a chi produce vita, Dio non si lascia vincere in generosità, la

misura che misurate sarete misurati, ma vi verrà data qualcosa in aggiunta.

Se io dò 100, non mi viene restituito semplicemente 100, ma 130. Ed io

questo 130 non lo tengo per me, ma lo dono e mi viene restituito 180: cioè

l’amore è la garanzia della crescita dell’individuo, più ci si dona agli altri e più

si cresce dentro. Ecco perché Gesù ha detto quella espressione che, così

come è tradotta ed interpretata, dà modo ad una interpellanza sindacale:
a

chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha
. Sembra di

un’ingiustizia pazzesca.

Il verbo avere è un verbo risultativo, perché quando io dico io ho, è sempre il

risultato di un’azione. Ho questa giacca che mi è stata regalata, ho questo

libro perché mi è stato comprato; allora lì Gesù, quando dichiara “a chi ha

sarà dato”, è dopo tutta la narrazione della parabola dei 4 terreni, vi è un

seme che è capace di produrre e fruttificare.

Allora il significato è questo: a chi produce sarà data capacità di produrre

ancora di più. Chi ha colto il messaggio di Gesù, lo traduce in atteggiamenti

pratici, più si dona agli altri e più gli viene data capacità di dare.

Chi invece non si dà agli altri, chi non produce rende sterile la propria

capacità di amare, e quando arriva il momento che ne ha bisogno, non ne è

capace.

Se io mi alleno quotidianamente a superare gli inevitabili screzi che la vita

comune, la vita famigliare, la vita sociale, comporta, quando arriverà il

momento del torto, dell’offesa, sarò capace a perdonare perché mi sono

allenato. Ma se io mi lego al dito tutti gli screzi, tutte le offese, quando

arrivo al momento grosso del torto, ne sarò incapace. A chi ha sarà dato, a

chi produce amore sarà data ancora più grande capacità di amare, e a chi non

ha sarà tolta anche quella capacità.

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Gesù ci assicura, e per questo dico che cambia la vita, se voi siete conosciuti

abitualmente come persone sulle quali gli altri possono sempre contare

perché sanno che quando ricorrono a voi, voi siete sempre pronti a dare una

mano, pronti a dire di si, beati perché quando voi avrete bisogno sarà Dio

stesso ad intervenire con molto di più di quanto voi avete potuto fare e dare

agli altri.

L’altra beatitudine, la più male interpretata in passato è:

“Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”
e letteralmente “Beati i puri di

cuore, perché questi vedranno Dio”.

In passato la purezza non era nel cuore, ma nei genitali. Era una generazione

ossessionata dalla purezza, una generazione che anche nei gabinetti eravamo

seguiti da quel triangolo con l’occhio che Dio ti vede. E la purezza era

sempre per quella parte lì, ossessionati dai genitali, e questo ha fatto

perdere di vista la ricchezza di questa beatitudine.

Gesù non sta parlando di purezza a livello genitale, a livello sessuale.

Il cuore nel mondo ebraico non ha lo stesso significato che ha nella nostra

cultura occidentale; il cuore non è la sede dell’affetto dell’amore, ma il cuore

è l’equivalente della nostra mente, della nostra coscienza: quando nel vangelo

si parla di duri di cuore, non si intendono persone crudeli, ma persone

ostinate, persone resistenti.

Allora Gesù sta parlando dei puri di cuore, quelli cioè che sono limpidi nella

propria coscienza, nel proprio intimo, e afferma che questi personaggi

limpidi, trasparenti vedranno Dio.

Anche qui l’evangelista - vedete come è tutto un richiamo all’AT? - si

riferisce al salmo 24,4 che metteva la purezza di cuore come una condizione

per salire al tempio e partecipare alla liturgia.

Gesù parla di persone limpide, ma anche questo non è una qualità

dell’individuo, ma un atteggiamento che lo rende riconoscibile; e quando una

persona ha scelto la prima beatitudine, cioè di non arricchire, ma di

condividere con gli altri, di rinunciare all’ambizione dell’avere di più,

dell’essere di più, finalmente diventa una persona vera, una persona

autentica, cioè una persona trasparente.

24

Allora Gesù assicura: le persone limpide, le persone vere, le persone

trasparenti, cioè quelli che hanno nel cuore, nel nostro cuore, hanno anche

nella lingua, le persone che non sono doppie, le persone che non si presentano

con la maschera, beate perché vedranno Dio.

Ma attenzione che Gesù non assicura le visioni, (attenti alle visioni e ai

visionari perché ce n’è una inflazione…): se vi capita di avere una visione

misuratevi la pressione o prendete altri provvedimenti!

Qui Gesù assicura che vedranno Dio, ma non nell’aldilà, perché nell’aldilà Dio

lo vedranno tutti, anche le persone che non sono state pure di cuore. Gesù

assicura una visione qui, su questa terra.

Il verbo greco vedere si scrive in 2 modi:

1. uno (
blšpw) indica la vista fisica,

2. e l’altro (
Ðr£w) indica la percezione interiore, una profonda esperienza

interiore.

Noi usiamo invece lo stesso verbo per dire 2 cose diverse:

1. quando parlo con una persona e vedo che quello che le dico non lo

capisce, le dico: “ma non vedi che…”;

2. oppure, per richiamare l’attenzione, quante volte diciamo: “guarda

che…;

invece in greco ci sono 2 verbi.

E qui l’evangelista non scrive che avranno delle visioni di Dio, ma Gesù

assicura che chi fa la scelta della prima beatitudine sarà una persona

limpida, trasparente, e siccome è trasparente con gli altri, Dio sarà

trasparente con lui, e questo si accorgerà della presenza di Dio nella sua

esistenza come un padre tenero che si prende cura anche degli aspetti

minimi, insignificanti della sua vita.

La vita cambia, noi crediamo che Dio c’è, ma quando lo sperimentiamo?

Quando ne facciamo esperienza? Dio c’è, ma dov’è?

Ebbene Gesù ci assicura: se voi scegliete questa prima beatitudine e

diventate persone limpide, trasparenti, vi accorgerete quotidianamente della

presenza di Dio anche negli aspetti minimi, insignificanti della vostra

esistenza. Un Dio di una tenerezza che tutto trasforma in bene, un Dio che

si mette a vostro servizio, un Dio che sempre vi è accanto.

25

E siamo alla beatitudine che era un po’ al centro dell’incontro, ma avete visto

che sono tutte legate una all’altra e non è possibile prenderne una a scapito

delle altre:

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”

letteralmente “
Beati i pacificatori, perché questi saranno chiamati figli di

Dio
“.

Anzitutto i termini.

Gesù non proclama beati i pacifici, ma i pacificatori, i costruttori di pace

(
e„rhnopoio…).

Qual è la differenza?

Il pacifico è una qualità dell’individuo, è colui che tiene tanto alla sua

pace che evita accuratamente ogni situazione di conflitto.

Il pacificatore è un individuo che per la pace degli altri, crea situazioni

conflittuali, i costruttori di pace sono dei gran rompiscatole, perché

per la pace degli altri sono pronti a perdere la propria.

Ma vediamo chi sono questi personaggi.

Costruttori di pace: anche qui l’evangelista non indica una qualità

dell’individuo, ma una attività che rende pienamente riconoscibili.

La parola pace la conosciamo dall’ebraico “shalom”, è molto più ricca del

nostro termine pace: pace significa tutto quello che concorre alla piena

felicità degli uomini. Quindi vedete ancora una volta che il progetto di Dio è

che gli uomini siano felici.

Se sottolineo questo è che purtroppo sapeste quante volte la gente associa

più facilmente Dio all’infelicità che alla felicità; non solo, ma sapete che ci

sono tante persone che non vivono serenamente neanche quei periodi di

tranquillità e di felicità che la vita offre, perché se se ne accorge il Padre

eterno!!.

Tanto è vero che nel linguaggio popolare quando nella vita capita qualcosa di

inevitabile, si dice: lo sentivo che doveva succedere qualcosa, andava tutto

troppo bene!

E questa è l’immagine pagana della divinità, degli dei che quando si

accorgevano che qualcuno raggiungeva una soglia di felicità che a loro

sembrava intollerabile, ecco che gli davano una mazzata.

26

Molte persone la parola “felicità” hanno paura di pronunciarla perché sembra

che non sia possibile associata a Dio, tanto è vero che siamo tutti eredi della

famosa “valle di lacrime”, la piscina spirituale dove le pie persone sguazzano

piamente e devotamente.

Non è questo il messaggio di Gesù: egli ci invita alla pienezza della felicità

qui, è possibile essere felici qui.

Sottolineo questo perché nei contatti con le persone, per la deformazione

spiritualizzante che c’è stata in passato, molte persone credono che essere

felici, essere gratificati, non sia corrispondente alla volontà divina.

Sapete quante persone brave che fanno volontariato, che si dedicano agli

altri, entrano in crisi perché dicono: “ma io però non faccio un sacrificio, lo

faccio volentieri, mi fa piacere aiutare gli altri, sarà meritorio? Sarà

valido?”

Io do sempre un consiglio: “mettiti un paio di scarpe più strette e così soffri

e vedrai che la tua azione sarà meritoria….”

Perché sembra che se uno non si sacrifica, se uno non soffre, questo non sia

accetto agli occhi del Signore. La persona felice sembra che non sia in

sintonia con Dio. Basta guardare l’iconografia del passato, guardate i santi,

che allegria che facce particolari che hanno!

Avete mai visto un santo felice? Un santo sorridente è raro, sono sempre

mesti. E’ volontà di Dio che su questa terra si realizzi la felicità e Gesù ci

chiede di collaborare alla creazione di Dio.

Vedete, nella teologia giudaica si credeva e si insegnava che Dio aveva

lavorato per 6 giorni e il settimo si era riposato, aveva creato il mondo,

l’universo, poi gli uomini lo avevano guastato, ma Dio aveva lavorato.

Gesù non è d’accordo: quando gli rimproverano di non osservare il sabato, nel

vangelo di Giovanni Gesù risponde:
il Padre mio lavora e anche io lavoro, la

creazione non è terminata.

La narrazione che troviamo nel libro del Genesi di quella armonia tra

l’uomo e la donna, tra l’uomo e il creato, non è un rimpianto di un

paradiso perduto, ma la profezia di un paradiso da realizzare.

Quindi non c’è da rimpiangere un paradiso perduto, ma da rimboccarci le

maniche per realizzare questo paradiso.

27

Ecco perchè Paolo nella lettera ai Romani ha un grido: “
l’umanità, la creazione

geme nell’attesa che diventiate figli di Dio”
.

Questa è la volontà di Dio, che noi diventiamo collaboratori della sua

creazione; questo significa essere costruttori di pace.

Ecco perché in questa beatitudine c’è l’equivalente: perché questi saranno

chiamati figli di Dio.

Figli di Dio nel mondo ebraico ha 2 significati:

1. il primo di assomigliante (figlio di Dio significa che assomiglia a Dio)

2. il secondo di protezione da parte di Dio.

Ebbene Gesù assicura: quelli che costruiscono la pace, cioè quelli che

lavorano per la felicità, per la dignità e la libertà degli uomini, beati perché

prima di tutto assomigliano a Dio.

Se assomigliano a Dio significa che fanno lo stesso lavoro di Dio. E poi beati

perché avranno Dio dalla parte loro. Dio sta dalla parte non di chi toglie la

felicità, ma di chi la costruisce, non di chi toglie la dignità, ma di chi

restituisce la dignità agli uomini, cioè Gesù ci invita a collaborare alla

creazione.

Vedete c’è un’espressione nel NT che però con il nostro limite traduciamo

tutto con la nostra mentalità occidentale e non secondo i criteri orientali.

Quando Paolo, o anche in altri passi si parla che noi siamo stati scelti per

essere figli adottivi di Dio, noi abbiamo la nostra immagine occidentale in cui

l’adozione è quel un gesto d’amore con il quale si prende un bambino nel seno

di una famiglia; ma il significato teologico di essere figli di Dio, figli adottivi

di Dio è molto più ricco.

A quell’epoca si usava così: quando un re o un imperatore vedeva la sua vita

ormai alla fine, non lasciava il suo regno il suo impero ad un figlio suo

naturale, ma sceglieva tra i propri generali, tra i propri ufficiali la persona

che gli sembrava più adatta, la più capace di continuare come lui il suo

impero, e lo adottava come figlio.

È questa l’adozione a figli, cioè un Dio talmente innamorato degli uomini, un

Dio che ha talmente stima di noi che ci chiede di essere suoi figli adottivi,

cioè di collaborare con Lui e come Lui alla creazione del mondo, a costruire la

pace.

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È inevitabile che per costruire la pace, bisogna toglierla a quelli che sono i

nemici della pace, quando si lavora per favorire la vita degli oppressi, bisogna

disturbare un po’ la vita degli oppressori.

Abbiamo visto che queste beatitudini sono tutte quante al futuro, e sono

possibili condizioni se esiste la prima beatitudine, ma poi arriva l’ultima

beatitudine che ha di nuovo il verbo al presente, esattamente come la prima:

“Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei

cieli”.

Vedete che la seconda parte della prima e dell’ultima beatitudine sono

identiche, uno non si aspettava questa doccia fredda. Dopo tutto questo

elenco di beatitudini uno si aspetterebbe quasi l’applauso della gente.

Invece Gesù è molto chiaro: quelli che sono fedeli a tutto questo programma,

(la giustizia significa colui che è fedele), quelli che sono fedeli alle

beatitudini, non si aspettino l’applauso, non si aspettino il riconoscimento

dalla società né civile, né religiosa, ma si aspettino la persecuzione.

Quello che è grave è che il verbo “perseguitare” adoperato dall’evangelista

(
dièkw) è un verbo che indica la persecuzione in nome di Dio, la più terribile,

perché non viene da nemici esterni viene proprio da quelli sui quali credevi di

contare, quelli avrebbero dovuto collaborare con te.

Gesù parla di questo perché chi accoglie le beatitudini entra in sintonia con

Dio, vede Dio, cioè lo sente presente nella propria vita ed ha bisogno di

manifestarlo sempre in forme nuove.

Allora accade che proprio all’interno della comunità cristiana ci sia una parte

invece che si è fermata e che anziché la proposta di Gesù di creare una

comunità dinamica animata dallo spirito si è degradata ad una istituzione

immobile regolata dalle leggi: allora questi non sopporteranno la presenza dei

profeti all’interno della comunità e la perseguiteranno.

Ecco perché Gesù dirà: “Gerusalemme, la città santa, Gerusalemme, sei una

città assassina, tutti gli inviati, i profeti che Dio ti ha mandato, li hai tutti

quanti assassinati”.

Allora l’ultima beatitudine, Gesù assicura, quelli che sono fedeli a questo

programma verranno perseguitati in nome di Dio. Quelli che vi avrebbero

dovuto aiutare saranno quelli che vi daranno contro.

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Gesù dirà nel vangelo di Giovanni: “verrà il momento in cui chiunque vi uccide

crederà di rendere culto a Dio”.

Sapete che mai si ammazza con tanto gusto, come quando si ammazza in

nome di Dio, quindi in nome di Dio vi perseguiteranno, ma, beati perché Dio

sta dalla parte vostra: la persecuzione per il credente, per la comunità

cristiana non sarà un segno di sconfitta, ma un fattore di crescita.

Nella parabola dei 4 terreni Gesù parla del chicco che cade in un terreno

pietroso e mette radici, spunta, ma poi viene il sole e lo brucia perché le

radici non erano andate in profondità.

L’azione del sole per la pianta è fondamentale, necessaria, vitale; se la pianta

si brucia non è colpa del sole, è colpa della pianta che non ha messo radici, e

Gesù, dandone la spiegazione, parla di quelli entusiasti che accolgono il suo

messaggio, ma poi quando arriva la persecuzione crollano.

La persecuzione è un fattore di crescita per la comunità, è come l’azione del

sole sulla pianta, la irrobustisce e la fa crescere; questo non significa che

bisogna andare in cerca delle persecuzioni, ce ne sono già abbastanza per

conto suo; ma Gesù ci assicura che vivere così comporterà la persecuzione,

ma Dio tra chi perseguita e chi viene perseguitato, sta sempre dalla parte

del perseguitato. Tra chi condanna in nome di Dio e i condannati, Dio sta

sempre dalla parte dei condannati, tra chi accende il rogo e chi viene

arrostito, Gesù, Dio sta sempre dalla parte degli arrostiti. E forse la tragica

storia della nostra chiesa, non è che non ha saputo riconoscere i santi, i

profeti, gli inviati da Dio, li ha subito individuati e, quando è stato possibile li

ha eliminati. Ma poi la storia passa e quelli che sono stati sacrificati, quelli

che sono stati umiliati passano ad essere i veri testimoni del Signore.

Prendo per esempio un personaggio che mi sta particolarmente caro e che

conoscete tutti, questa donna straordinaria che è stata Teresa di Avila.

Era entrata tra le monache di clausura, ma lei era la donna delle beatitudini,

cioè in sintonia con Dio, sentiva insufficienti i mezzi, gli strumenti che la

regola le dava ed aveva bisogno, proprio perché era in sintonia con Dio, di

agire in una forma nuova. Ebbene il vescovo scrive al santo uffizio queste

testuali parole: “ho qui nella mia diocesi una monaca che è femmina inquieta e

vagabonda”. È un autoritratto bellissimo, la monaca femmina inquieta e

30

vagabonda, la chiesa, dopo un po’ di tempo l’ha riconosciuta dottore della

chiesa, invece del vescovo se ne è persa la memoria.

Ma aveva ragione, povero cristo: o Teresa mia, sono secoli che le monache

diventano sante con queste regole, che bisogno c’è di modificarle, di

cambiarle?

Ecco gli uomini delle beatitudini, i costruttori di pace, quelli che sono in

sintonia con Dio, trovano i mezzi dei loro contemporanei, sempre

insufficienti e avranno bisogno di crearne sempre nuovi perché la comunità

voluta da Gesù è una comunità dinamica animata dallo Spirito. Il rischio è

che si degradi in rigida istituzione regolata dalla legge e quindi refrattaria

all’azione dello Spirito.

Come facciamo a sapere se siamo nella dinamica comunità animata dallo

Spirito, quella delle beatitudini, o nella rigida istituzione immobile regolata

dalle leggi?

C’è una frase che è un segnale di allarme: quando di fronte ad una proposta

nuova, quando di fronte ad una novità diciamo, sentiamo dire: “ma perché

cambiare? Si è sempre fatto così”, attenzione perché siamo dalla parte

della legge e non dello Spirito, rischiamo di passare ad essere persecutori

anziché perseguitati. Vi ringrazio.

Interventi

Domanda:
Quanto ci vorrà perché nelle nostre chiese, nei nostri seminari si

insegni il vangelo secondo quello che è veramente, cioè con i testi originali?

A. Maggi
. Il primo lavoro da fare è la traduzione, perché il testo greco non

è accessibile naturalmente ai più, quindi il primo passo da fare è la

traduzione. Venne fatta una prima traduzione, ma inesatta, imperfetta,

ricca di errori: è quella che conosciamo come la Bibbia CEI o meglio la Bibbia

di Gerusalemme, ma la stessa commissione episcopale italiana finalmente si è

resa conto che non era una traduzione esatta e nel 1997 ha pubblicato la

nuova traduzione, per adesso solo del NT, e in corso, quasi finito c’è l’AT.

31

Ed è molto importante perché, vedete, la spiritualità, la teologia si fa sul

testo del vangelo. Se questo testo è tradotto male, tutta la nostra esistenza

ne avrà dei danni.

Pensate soltanto all’invito di Gesù: “
se non vi convertite non entrate nel

regno dei cieli
”, l’invito a convertirsi significa orientare diversamente la

propria esistenza, cioè se non la smettete di pensare soltanto a voi stessi e

non vi decidete di orientarvi verso gli altri, mettendo il bene degli altri al

primo posto, non avete nulla a che fare con me.

Ebbene in passato, nella traduzione latina, ed in quelle italiane, l’invito a

convertirsi era tradotto “
se non fate penitenza”.

Ecco perché quando leggiamo la vita dei santi vediamo che si sacrificavano,

che facevano penitenze, perché il vangelo che avevano loro c’era scritto ”
se

non fate penitenza
”, allora pensavano che più si soffriva e più si meritava di

entrare nel regno dei cieli.

Bene, questa nuova traduzione del 1997, ha fatto finalmente delle scelte

coraggiose nella traduzione, più aderenti al testo greco.

Finalmente per esempio, è scomparsa quella parola che ha creato sempre

tanti problemi nella fede, nella persona, la parola
miracolo; perché se c’è

scritto miracolo, la gente si aspetta miracoli.

Gli evangelisti, il termine greco che significa miracolo non lo adoperano mai,

le azioni di Gesù non vengono mai qualificate come miracoli, ma sempre come

segni, opere e prodigi, perché sono
segni, opere, prodigi che è compito

della comunità cristiana continuare a fare e addirittura arricchire
. E

Gesù stesso dice, “
le opere che io compio, voi ne compierete di più grandi”, e

questo è importante perché altrimenti di fronte a certe azioni di Gesù se noi

pensiamo al miracolo, non arriviamo mai.. se invece parliamo di un segno, è un

invito che noi possiamo fare.

Esempio, la cosiddetta moltiplicazione dei pani e dei pesci, chi lo può fare?

Soltanto una persona prodigiosa o un prestigiatore, ma nessuno di noi, anche

se Gesù dice che se voi aveste fede come un chicco di senape, quello che io

faccio lo farete molto di più.

Vogliamo fare la prova stasera?

32

Chiediamo che portino qui 5 pani e 2 pesci, preghiamo tutta la notte,

qualcuno con un po’ di fede ci sarà, ed io vi assicuro che domani mattina il

pesce puzza ed il pane è secco.

Allora c’è qualcosa che non va, se invece giustamente interpreto questo

episodio come un segno che Gesù ha fatto e che noi dobbiamo fare, capisco

che non si tratta di fare un gesto da prestigiatore, volete pesce mangiate,

volete il bis, ma l’invito in quel brano del vangelo è,
se uno trattiene per se,

crea la fame, quando ci decidiamo a condividere cioè a mettere insieme

quello che abbiamo, si crea l’abbondanza
.

Allora questo si che lo possiamo fare; quindi tutte le azioni compiute da Gesù

vengono qualificate come segni opere, prodigi, ed è quindi scomparsa la

parola miracolo.

Prima si è parlato della finale del vangelo di Matteo, nella vecchia traduzione

CEI, e adesso corretto nella nuova, le ultime parole di Gesù erano: “
ecco io

sono con voi fino alla fine del mondo
”, quindi questo spauracchio di una fine

del mondo.

Mai Gesù parla di una fine del mondo, Gesù non indica una scadenza, ma dà

una qualità, “
io sono con voi per sempre”.

Quindi c’è una nuova traduzione, molto bella, alcune correzioni erano già

state fatte nelle edizioni precedenti.

Per esempio, quanti danni ha fatto nella spiritualità l’invito degli angeli alla

nascita di Gesù, “gloria a Dio nell’alto dei cieli”.

Ricordate come era tradotto? “
e pace in terra” a chi? A quelli che se lo

meritano,
gli uomini di buona volontà.”

Era la categoria religiosa del merito, ma il testo se oggi lo andate a vedere,

è “
agli uomini amati dal Signore”.

Come finalmente è scomparso quell’inesatta traduzione del regno dei morti

con l’
inferno; questa immagine dantesca di questo luogo di condanne.

Mai Gesù parla di inferno
perché è una realtà sconosciuta, parla del regno

dei morti, dove i morti vanno a finire.

Allora è compito delle comunità, della chiesa, elaborare queste nuove

traduzioni e da lì creare una nuova teologia ed una nuova spiritualità. Noi

siamo fortunati perché siamo all’alba di una primavera straordinaria che

causerà e provocherà tanti cambiamenti nella struttura stessa della chiesa.

33

Domanda.
Lei ha insistito molto sulla comunità, ma qual è il riferimento? La

parrocchia, il gruppo....?

A. Maggi
. L’azione di Gesù più importante che troviamo nei vangeli, è stata

quella di togliere delle persone dai recinti, ma non per inserirli poi in un altro

recinto.

Un altro errore nefasto nella traduzione dei vangeli causò guerre tra i

cristiani e causò una teologia assurda.

Sapete che Gesù nel cap. 10 del vangelo di Giovanni dopo aver cacciato la

pecore dall’ovile, che era l’immagine del recinto dell’istituzione giudaica,

dice: ho altre pecore che non sono di questo ovile, anche queste devo far

uscire affinché essi formino un solo gregge, un pastore.

Cioè, che cosa è che fa Gesù? La religione, immagine dell’ovile offre la

sicurezza, il recinto però toglie la libertà, e questo è il fascino della

religione.

Chi entra nell’ambito della religione non è più una persona libera perché ci

sarà sempre qualcuno che gli dirà cosa fare, come fare e dove farlo. Quindi

non è una persona libera, però ha la sicurezza perché non deve più ragionare

con la propria testa.

Io per sapere cosa devo fare mi rivolgo ad una autorità che riconosco

superiore, quindi non sono libero, ma sono sicuro; questo però mi tiene in una

posizione infantile.

Ebbene Gesù viene a liberare da questo recinto, ma non viene a formarne un

altro più bello, più santo. Gesù dona la piena libertà della persona, perché

soltanto la persona libera può maturare, crescere e ragionare con la propria

testa.

Nella traduzione di questo testo, il traduttore, forse san Girolamo, anziché

la parola gregge ha confuso con la parola ovile e scrisse: “
si farà un solo

ovile, un solo pastore
”. (Gv 10,16). Da qui la pretesa della chiesa di essere

l’unico ovile di Cristo, da cui viene quell’affermazione drammatica che fuori

dalla chiesa (e si intendeva chiesa cattolica) non c’è salvezza (
extra

ecclesiam nulla salus
). Il concilio di Firenze del 1432 aveva decretato che

tutti gli ebrei, mussulmani, gli infedeli, i non battezzati, quando morivano

andavano all’inferno per tutta l’eternità perché l’unica salvezza è nella chiesa

cattolica.

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Contrordine, il Concilio Vaticano II, 5 secoli dopo, dice che tutti ebrei,

mussulmani e aggiunge anche la categoria degli atei, ma che rispondono ai

dettami dalla propria coscienza, conseguono la salvezza (cf
Lumen Gentium

16); quindi abbiamo avuto per secoli persone ad essere precettate ad essere

cattoliche, non si poteva scegliere, non c’era alternativa, se non l’inferno fino

alla fine dei tempi.

Allora Gesù non è venuto a creare dei recinti, per quanto sacri per quanto

belli!, ma letteralmente “
un gregge, un pastore”, (non c’è la “e” congiunzione)

cioè la presenza del un gregge comporta quella del pastore: questa è la

comunità cristiana.

Ma le forme come realizzare questa comunità, Gesù non le dà, non le

determina; sarà compito della comunità inventare e creare queste forme

nuove.

Se una forma va bene per un determinato periodo e poi si vede che non va

più bene, è inutile insistere, si cambia. Quindi è importante per la dinamica

della comunità, (quindi non so rispondere esattamente alla domanda), che

ogni qualvolta una struttura si rivela insufficiente per rispondere alle

esigenze degli uomini, si cambia, non perché veneranda, non perché si è

sempre fatto così, non perché si sono avuti tanti in questa struttura, quando

si vede che è insufficiente si rinnova. Oggi c’è la bella novità della mobilità,

della capacità di muoversi, se nella comunità dove siamo non siamo

soddisfatti del servizio che ci fanno, si prende e si va da un’altra parte. Non

è più come una volta che si era obbligati in un determinato posto, in una

determinata comunità, oggi quando una non è soddisfatto di un posto, prende

e va dall’altra parte.

Domanda
. Gesù risuscitato a Gerusalemme, nel vangelo di Matteo, è andato

in Galilea. Che cosa è oggi Gerusalemme e che cosa è oggi la Galilea per noi?

A. Maggi
. È un episodio strano che troviamo alla fine del vangelo, ma

ricordiamoci che i vangeli non vogliono essere una cronistoria e raccontare

dei fatti, ma una teologia, cioè il porre delle verità, per cui gli evangelisti

prendono degli elementi della vita di Gesù e del suo insegnamento e poi li

elaborano in piena libertà. A loro non interessa la storicità di un fatto, ma la

verità dello stesso.

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Se noi prendiamo gli avvenimenti che seguono la morte di Gesù, che muore

assassinato a Gerusalemme, è stato seppellito a Gerusalemme, risuscita a

Gerusalemme, i discepoli sono a Gerusalemme, e la cosa più normale una volta

risuscitato, che compaia ai discepoli: infatti se andiamo a leggere il vangelo

di Giovanni, la sera stessa Gesù compare ai discepoli che sono chiusi per

paura dei Giudei.

Nel vangelo di Matteo invece, quando Gesù risuscita, non appare a

Gerusalemme, ma dice alle donne: “
andate a dire ai discepoli che se mi

vogliono vedere vadano in Galilea, là mi vedranno
”.

È strano: ma perché posticipare l’esperienza importante della risurrezione di

Cristo almeno di 4 giorni (tempo di viaggio da Gerusalemme alla Galilea),

perchè questo significato?

E poi, perché l’evangelista scrive che gli undici andarono su un monte che

Gesù aveva loro indicato?

Gesù non ha indicato nessun monte, Gesù ha detto: andate in Galilea, loro

vanno su un monte, che monte è? È il monte delle beatitudini. È questo il

monte.

Cosa ci vuol dire l’evangelista?

Che l’esperienza del Cristo risuscitato non è tanto un privilegio concesso

2000 anni fa a un piccolo gruppo di persone, ma una possibilità per i credenti

di tutti i tempi.

Come?

Basta andare in Galilea sul monte delle beatitudini, il che non significa fare

un pellegrinaggio in quei posti, significa accogliere il messaggio di Gesù così

come è formulato nelle beatitudini: chi accoglie questo messaggio fa

l’esperienza del Cristo risorto.

Ma perché Gesù non è apparso a Gerusalemme?

Perché Gerusalemme nel vangelo di Matteo appare sin dagli inizi sotto una

luce sinistra.

Ricordate l’annuncio (Mt 2,3) che è nato il re dei giudei?

Scrive l’evangelista che Erode “
fu preso da spavento”, e che si spaventasse è

comprensibile, non era un re legittimo, non ha sangue ebreo nelle vene e era

ossessionato dall’idea che qualcuno gli potesse togliere il potere. Tre figli ha

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ammazzato più una decina di famigliari per paura che gli togliessero il

potere, e l’ultimo figlio l’ha ammazzato 5 giorni prima di morire, quindi era un

uomo ossessionato dal potere; figuriamoci quando sente il messaggio che è

nato un nuovo re!!

Erode si turba, ma l’evangelista aggiunge, “
e con lui tutta Gerusalemme”.

Come mai Gerusalemme, la città santa, la città del tempio, dell’attesa del

messia, quando annunciano che è nato si spaventa, si turba?

L’evangelista non fa altro che anticipare quella che sarà l’azione di Gesù, la

cui venuta sarà la fine di Gerusalemme, di questa istituzione religiosa che

aveva usurpato il nome di Dio. La venuta di Gesù sarà la fine del tempio; il

tempio serviva per portare i sacrifici a Dio, e Gesù presenta un Dio che non

chiede nessun sacrificio. E la stella che guida i magi non brillerà mai sopra

Gerusalemme che è sotto una cappa di tenebre.

Allora per questo Gesù quando risuscita non appare a Gerusalemme.

Gerusalemme è la città di morte, è la città assassina. Gerusalemme oggi è

l’istituzione religiosa che continua a non riconoscere i profeti, che li ostacola

e quando può li elimina. Gerusalemme è l’istituzione dove Dio viene

strumentalizzato per il proprio potere, per la propria ricchezza, dove il volto

di Dio viene deformato per imporre il proprio dominio alle persone. Questa è

Gerusalemme nell’immagine biblica.

La Galilea, il monte della Galilea, è il luogo della libertà, perché il rischio del

messaggio di Gesù è che chi lo accoglie, diventa ingovernabile perché è una

persona completamente libera.

Quando Gesù mette come condizione a chi lo vuol seguire “
se non prendete la

croce
”, non significa, se non sono accettate le sofferenze, le disgrazie della

vita. La croce era il patibolo riservato alla feccia della società; allora Gesù a

questi discepoli che lo seguono per ambizione, che lo seguono con speranza

di successo, di condividere il potere con Lui.

Gesù dice: se non rinunciate a tutto questo, anzi se non accettate di essere

considerati la feccia della società, non pensate di seguirmi.

Allora, qual è il significato della croce oggi?

Se non accettate di perdere la vostra reputazione, a causa di Gesù e del suo

messaggio, (naturalmente non per la vostra stupidità), non pensate di

seguirmi.

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All’inizio è doloroso perché tutti ci teniamo al nostro buon nome, ci teniamo

alla reputazione, al giudizio degli altri a quello che pensano gli altri, ma

quando poi a causa di Gesù, di fedeltà al suo messaggio, si perde la

reputazione, c’è l’ebbrezza della libertà, e non si torna più indietro!

Ma ci pensate?

Finalmente poter dire quello che si pensa, perché - tanto che ti interessa? -

quello che gli altri pensano di te, peggio di così non possono dire, hai perso

tutta la reputazione.

Pensate, poter essere quello che finalmente si è, ma non continuare con

tutte le supposizioni: chissà cosa pensa, come mi giudica.

Gesù invita a fare questo: perdete la vostra reputazione, perché soltanto chi

perde la reputazione è una persona libera e soltanto una persona libera può

seguire Gesù.

Domanda
. Storia e geografia nei vangeli...

A. Maggi
. Attenzione gli evangelisti nella piena libertà di movimento,

adoperano elementi storici e geografici secondo il loro piano teologico. È una

cosa molto difficile per noi occidentali capire.

In
oriente quello che conta è la verità di un fatto e non la storicità; per

noi ciò che è vero deve essere anche storico
, ma non è così, e gli

evangelisti pur contenendo elementi storici non vogliono trasmettere la

storia, ma la verità di un fatto, mentre per noi quello che è vero deve essere

anche storico. Eppure non sempre è così perché è più incisiva la verità di un

fatto che la sua storicità.

Un esempio, prendete un quadro che c’è a Washington dove viene presentato

il presidente Abramo Lincoln nell’atto di spezzare le catene di uno schiavo.

Il pittore cosa ha rappresentato? Un fatto storico o un fatto vero?

Non un fatto storico, perché mai Lincoln ha spezzato le catene ad uno

schiavo, ma una verità, un fatto vero.

Ma per rappresentarlo era molto più incisiva l’immagine di Lincoln che spezza

le catene di uno schiavo che Lincoln che firma il documento con il quale si

abolisce la schiavitù.

E così gli evangelisti trasmettono la verità di Gesù, ma senza quelle nostre

preoccupazioni sulla storicità dei fatti. Ecco perché qualcuno che vuol avere

certezze geografiche può rimanere un po’ deluso.

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Pensate alla confusione quando il lago di Galilea lo chiamano mare, già si

conosce poco la geografia di quei posti, il mare è mare: perché il lago

l’evangelista lo chiama mare?

Perché l’evangelista ha un intento teologico; il mare è quel confine da

passare per raggiungere la libertà, ricordate il popolo ebraico che dovette

passare attraverso il mare. Il mare è il confine con il mondo pagano, allora

loro quello che è un lago, lo chiamano mare.

Domanda
. Separati e divorziati in difficoltà per i sacramenti: perché Gesù

nel vangelo non permette il divorzio?

A. Maggi
.

Che cosa è il vangelo? È diventato abitudinario definire le grandi religioni

monoteiste, come le religioni del libro.

Cosa si intende per religioni del libro? Si intende una religione dove c’è un

libro che si crede ispirato da Dio, oppure dettato direttamente da Dio nel

quale è contenuta la sua volontà immutabile per tutti i tempi.

Il libro è dato ad una determinata data storica, avvengono cambiamenti

nell’umanità, cambia la società, cambia la cultura, ma ogni generazione deve

osservare ciò che è scritto in questo libro.

Ma adesso ci sono situazioni nuove che nel libro non vengono contemplate…

non importa!

Per religione del libro si intende un libro ispirato o dettato da Dio dove è

stata descritta in maniera immutabile la sua volontà e tutti gli uomini di

tutte le generazioni devono osservare queste leggi.

Ma capite che leggi scritte in altri contesti sociali, in altre situazioni non

possono rispondere alla dinamica della società, non importa, si sacrificano le

persone per mantenere integro ciò che è scritto nel libro.

Questa è la religione del libro; non così i vangeli. Quella di Gesù non può

essere qualificata come una religione del libro, ma come una fede dell’uomo:

quello di Gesù è un messaggio in cui al centro non c’è Dio, ma c’è il bene

dell’uomo
, perché quando si parla del bene dell’uomo, per Gesù si fa pure il

bene di Dio, ma quando si fa il bene di Dio, spesso si può fare il male

all’uomo.

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Ricordate nella parabola del samaritano, il sacerdote che non soccorre il

ferito non è una persona crudele, è un perfetto osservante.

Cosa è più importante? L’amore a Dio, “amerai il Signore tuo con tutta la tua

anima, con tutte le tue forze, con tutto te stesso” o un semplice precetto:

“ama il prossimo tuo”?

È più importante l’amore di Dio. Allora tra l’osservanza della legge di Dio e il

bene dell’uomo si preferisce la prima, e siccome la legge ti proibisce a te che

sei sacerdote di toccare un ferito perché ti rende impuro, si onora Dio e si

sacrifica l’uomo.

Quella di Gesù non è una religione del libro, ma un a fede dell’uomo, e gli

evangelisti lo hanno capito.

Ecco perché per i primi secoli il testo evangelico è stato un testo vivente. Il

testo cresceva e si arricchiva secondo la vita della comunità.

A quell’epoca non esisteva il divorzio, ma il ripudio. Il ripudio era un

documento che l’uomo per qualunque motivo poteva cacciare via la moglie. Se

andiamo a leggere nel Talmud le motivazioni sufficienti per ripudiare la

propria moglie, pensate che c’è scritto: se al mattino l’uomo svegliandosi e

guardando il volto della moglie non lo trova più di suo gradimento, scriva il

certificato di ripudio e la mandi via, anche se brucia una pietanza può essere

cacciata la moglie; quindi era un atto di ingiustizia da parte dell’uomo nei

confronti della donna.

Gesù nel vangelo di Marco, che è il più antico, è categorico, l’uomo non può

ripudiare la propria moglie. La frase di Gesù è molto chiara e molto severa:

non è lecito all’uomo ripudiare la propria moglie.

Poi passano i tempi, passano gli anni e nella comunità di Matteo si

manifestano nuove situazioni che non erano state contemplate in quella

primitiva di Marco e allora cosa si fa? Si fa la revisione del libro? La legge è

così e basta?

No, non è la religione del libro, ma la fede nell’uomo, ed allora lo stesso

episodio, la stessa frase (“non è lecito all’uomo ripudiare la propria moglie”),

e Matteo aggiunge un’eccezione con una parola greca che ha almeno una

ventina di significati per evitare che si facesse una casistica, eccetto in

caso di
porne…a (pornèia) e significa adulterio, relazione

illecita,..etc..perché non ha voluto chiudere l’argomento.

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Nella comunità di Matteo la frase di Gesù viene ripresa, ma viene aperta una

eccezione che i padri della chiesa interpretarono con adulterio, ma non nel

senso di “corna”, ma nel senso che uno della coppia che è andato

definitivamente con un’altra persona, e il matrimonio non c’è più; quindi

l’uomo può sciogliere il matrimonio in un caso del genere.

Oggi la chiesa cattolica si trova di fronte ad una enorme contraddizione che,

è questione di tempo ma ne abbiamo la certezza, risolverà.

La contraddizione oggi è che la chiesa da sempre ha rivendicato il potere

concesso da Cristo di perdonare tutti i peccati, ma adesso inciampa su quello

del divorzio. La chiesa è cattolica, ma la chiesa è romana e quello che

succede a Roma, quello che succede in Italia è quello che determina la

teologia.

Cinquanta anni fa il divorzio era una parola quasi inesistente, si leggeva a

volte delle attrici di Hollywood che divorziavano, ma in Italia era un

concetto inesistente, già se una persona era separata si diceva sottovoce;

oggi no, oggi è una realtà che c’è, che esiste, con la chiesa si è trovata

impreparata a fare i conti.

Allora oggi la contraddizione nella teologia della chiesa è che è più grave il

divorzio dell’omicidio. Se tu ammazzi tuo marito o tua moglie e poi ti penti,

ritorni alla piena comunione con la chiesa e ti puoi risposare. Se divorzi, non

è più possibile; tanto è vero che io alle persone divorziate che hanno questo

problema dico che c’è la soluzione: ammazza il coniuge!!!

Con la legge italiana ti fai un paio di anni, cosa vuoi che sia!! E poi risolvi e

regoli la tua situazione.

Vedete è umoristico, ridicolo, e quindi: è possibile che sia più grave il

peccato di divorzio che quello di omicidio? Certamente no.

Cosa fare? Andiamo a vedere nella storia del cristianesimo quando nelle

comunità cristiane accadeva questo problema: ai divorziati si faceva fare un

cammino penitenziale, nel senso di conversione di 3 anni e poi venivano

riammessi pienamente nella chiesa.

Solo che il cammino, i cambiamenti sono lenti. Sapete che nei primi secoli

della chiesa non si permetteva ai vedovi di risposarsi? Vedovi e vedove

dovevano rimanere nella loro condizione, non erano tollerate nuove nozze da

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parte dei vedovi; e sapete che fino al concilio vaticano II nel rito

matrimoniale dei vedovi non era consentita la benedizione della sposa?

Sei già stata benedetta una volta, quante ne vuoi !!

La chiesa è un po’ lenta, ma speriamo che adesso acceleri, e sono fiducioso

che arriverà alla soluzione di questo problema dei divorziati perché prima

non esisteva e oggi è impellente più che mai, e poi la chiesa deve essere

madre e non matrigna e non deve infliggere una sofferenza nella vita di

tante persone. Sarà una questione di tempo, speriamo prima che dopo,

perché è una contraddizione ormai insopportabile nella chiesa.