Famiglia dove sei???

Famiglia dove sei???
Quando non divulghi le colpe dei fratelli, quando perdoni senza indagare nel passato, quando non condanni, ma intercedi nell'intimo, il silenzio è misericordia.

lunedì 5 dicembre 2011

Lettera di preparazione al natale

AVVENTO



"Perché si festeggia il Natale all'inizio dell'inverno?" La risposta si trova nel Libro della Natura. Ogni vita comincia da un seme: un seme sepolto nell'oscurità della terra o nel ventre di una donna. L'inverno è la stagione in cui, nelle sementi messe nella terra, si fa un lungo lavoro di germinazione che terminerà in primavera, allo sbocciare di una moltitudine di esistenze nuove. Un lavoro identico si compie nella psiche di ogni essere: in quella terra nera che è la natura inferiore, il seme del Sé divino, il Cristo, deve cominciare a germogliare. La notte di Natale, i cristiani celebrano questo avvenimento. Sì, proprio di notte, a mezzanotte, nel momento della più grande oscurità ha luogo una nascita. Ecco perché, malgrado il freddo e l'oscurità, Natale è anche la festa della luce."
                  

Il tempo della speranza
Il tempo dell’avvento apre l’anno liturgico e ci ricorda un aspetto fondamentale della nostra fede e che troppo spesso viene dato per scontato:  la presenza di Dio nella storia, una presenza che è costante, continuativa e tangibile. Nato come tempo di preparazione all’incontro definitivo con il Cristo che verrà nella  parusia alla fine dei tempi (seconda venuta), in un secondo momento diventato celebrazione del Natale e ricordo della venuta storica del Figlio nella carne (prima venuta), si è  infine  configurato come il tempo della celebrazione della  venuta quotidiana di Gesù nella vita dell’uomo (venuta intermedia). Il tempo dell’avvento rappresenta così più un dato strutturale che occasionale della fede dell’uomo e disegna le  coordinate essenziali del rapporto dell’uomo con Dio, un rapporto fatto di speranza, attesa e vigilanza, poiché Dio visita il suo popolo e si preoccupa in mille modi di dare segnali inequivocabili della sua presenza. In questo senso siamo invitati a rivedere il nostro vocabolario interiore per considerare come il nostro Dio non sia tanto “un Dio che ritorna”, quasi si fosse allontanato momentaneamente e dopo un periodo di assenza facesse ritorno, quanto piuttosto un Dio che sta alla porta del nostro cuore e bussa, attendendo che apriamo la porta per venire e cenare con noi (Ap 3, 20). La venuta continua di Dio nella nostra vita è il fondamento della nostra speranza e tuttavia noi viviamo un rapporto strano con la speranza, spesso  infatti  ci rifugiamo  in quei due estremi che  in realtà  ci allontanano dalla speranza: la presunzione che ci fa sentire autosufficienti (specie quando le cose ci vanno bene e siamo portati a dimenticarci di Dio) e la  disperazione che ci getta nello sconforto e nella depressione (specie quando siamo provati e veniamo a contatto con la precarietà della nostra condizione umana). Eppure noi non possiamo fare ameno della speranza, che rappresenta come  l’ossigeno della nostra interiorità, al punto che potremmo stabilire non solo che “finché c’è vita c’è speranza”, ma anche che finché c’è speranza c’è vita, giacché una vita senza speranza forse non può nemmeno essere considerata vita. Siamo grati allora alla liturgia che ci permette di vivere in questo periodo dell’anno uno degli aspetti più importanti della nostra fede e che si configura per noi come la possibilità di riaccendere la capacità di desiderare e di appassionarci, dal momento che il vero motore del nostro cuore non è tanto la forza di volontà, che rimane sempre una parte importante, quanto piuttosto il  desiderio, quell’energia che ci rende capaci di tirare fuori le nostre energie migliori e spesso sepolte, e condurci alla dimensione della gratuità, della celebrazione, della lode.
Vivere l’oggi Credo sia importante che lo svolgimento delle nostre riflessioni segua le indicazioni che ci vengono direttamente dalla Sacra Scrittura, è sempre infatti la via più semplice e più sicura, capace di introdurci nel mistero e di scaldare il cuore, riaccendendo in noi il desiderio di seguire Gesù a partire dal nostro battesimo, nella via dei consigli evangelici e della nostra spiritualità, facendo rivivere così in noi la grazia delle origini.
Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua collera, consumiamo i nostri anni come un soffio. Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via.
Chi conosce l’impeto della tua ira e, nel timore di te, la tua collera? Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio. (Sal 89, 9-12).
Tutte le volte che nella Bibbia ci imbattiamo in un racconto apocalittico, nel linguaggio escatologico o in una riflessione sapienziale sulla morte e sulle cose ultime, ci troviamo in realtà di fronte ad una provocazione sulla nostra condotta e ad un giudizio sul nostro oggi. Da sempre la pedagogia biblica ha intuito l’importanza di scuotere la coscienza dei credenti con scenari dal forte impatto emotivo, allo scopo di farli riflettere sulla direzione che stava prendendo la loro vita e di costringerli a fare un più accurato discernimento per il futuro prossimo. Allo stesso modo le  parabole del giudizio non hanno come obiettivo la descrizione dell’inferno e dell’aldilà, tantomeno un certo terrorismo religioso che dovrebbe suscitare una conversione; ma sono piuttosto una provocazione a fare discernimento, perché non accada all’uomo di sprecare l’unica vita che gli è data. In altri termini tutte le volte che compare il futuro nella Parola di Dio, questo ha sempre un fortissimo rapporto con il presente, al quale è intrinsecamente intrecciato e dal quale dipende in modo diretto. In tutte le parabole del giudizio, infatti, ci si riferisce alla fine, quella realtà che consegna alla storia l’eredità di ciò che siamo stati e non siamo stati, di ciò che abbiamo fatto e che non abbiamo fatto, esponendoci a quel giudizio che è in grado di pesare la qualità del nostro cuore in modo definitivo ed oggettivo, visto che la libertà di cui siamo provvisti  non ha più  il  potere di imprimere una direzione al nostro agire. Possiamo contare almeno una quindicina di  parabole della fine e diventano 17 se consideriamo anche alcune espressioni forti che Gesù ha utilizzato nei suoi dialoghi con le persone che ha incontrato, ne consegue che l’argomento era di  capitale importanza per Gesù, che non si è risparmiato nel farsi prossimo all’uomo bisognoso di correzione.
* La parabola del portinaio (Mc 13, 33-37).
*Il regolamento amichevole dei conti (Mt 5, 25-26; Lc 12, 58-59).
*Il ladro nella notte (Mt 24, 43-44; Lc 12, 39-40).
* L’economo fedele e malvagio (Mt 24, 45-51; Lc 12, 42-46).
* La parabola dei talenti (Mt 25, 14-30; Lc 19, 12-27).
* La parabola della rete (Mt 13, 47-50).
* Il debitore spietato (Mt 18, 23-25).
* La parabola delle dieci vergini (Mt 25, 1-13).
* La separazione delle pecore e dei capri (Mt 25, 32-46).
* Il ricco stolto (Lc 12, 16-21).
* I servi vigilanti (Lc 12, 35-38).
* La parabola del fico sterile (Lc 13, 6-9).
* La parabola della porta chiusa (Lc 13, 24-30).
* La parabola del fattore infedele (Lc 16, 1-8).
* Il povero Lazzaro ed il ricco epulone (Lc 16, 19-31).
* Il grande banchetto (Mt 22, 1-10).
* Il paragone di Noé e Lot (Lc 17, 26-37).
In tutti questi racconti emerge il consiglio evangelico di diventare saggi, che potrebbe in qualche modo diventare l’aspetto su cui vigilare in questo tempo di avvento, una saggezza che viene dal contatto più riconciliato con la nostra condizione di creature: “riconoscano le genti di essere mortali” (Sal 9, 21). Ognuno di noi è invitato ad imparare a contare i propri giorni per giungere alla sapienza del cuore, per dirla in termini paolini a divenire più sobrio ed essenziale “passa infatti la figura di questo mondo”. (1 Cor 7, 31).
La vigilanza cristiana
Il tema fondamentale di queste parabole  e di questo tempo di avvento  può essere sintetizzato nella vigilanza, quella sobrietà e quella presenza a se stessi che ci permette di non vivere in superficialità, ma di andare al nocciolo delle cose, alla realtà fondamentale che spesso viene messa da parte e dimenticata perché data per scontata e per acquisita una volta per tutte con la professione dei consigli evangelici. Emerge la  serietà del giudizio che porta Gesù e che è già all’opera con la sua presenza, una serietà che non rivela solo la realtà di Dio (la sua  misericordia), ma anche  la  realtà  dell’uomo (la sua  libertà). La necessità di vivere  pienamente  nel presente si fondava nella primitiva comunità cristiana proprio nella consapevolezza che Gesù, poiché risorto, sarebbe  “tornato” e con il suo ritorno avrebbe portato alla luce il segreto che c’è nel cuore di ognuno; da qui l’esigenza di vivere nell’amore e nel bene per non essere trovati mancanti. Poiché il ritorno del Signore tardava la comunità ha iniziato a riflettere sulla venuta del Signore nella storia, un fatto che accompagna lo svolgimento dei giorni non solo in modo puntuale ed eccezionale ma in modo permanente. L’uomo ha iniziato così a capire che il mondo andava abitato, trasformato, evangelizzato, cambiato, e questo ha come allontanato da lui il senso di provvisorietà e di precarietà e ha aumentato il desiderio del benessere e il senso di abitare questo mondo il più a lungo possibile e con il maggiore numero di benefici.
Dopo 2000 anni di cristianesimo noi abbiamo perso il senso dell’attesa  vigilante  e abbiamo iniziato paradossalmente a vivere nel presente dimenticandoci del futuro, abbiamo iniziato ad abitare nella storia finendo per preoccuparci così tanto delle cose quotidiane da mettere in secondo piano quelle eterne:
«Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.». (Col 3, 1-4).
Il  cortocircuito in cui ci imbattiamo oggi quando si affaccia il periodo dell’avvento e che non ci permette più di cogliere il significato autentico di questo tempo liturgico è dato dal fatto che è cambiato il modo di vivere il presente. Se nella cultura biblica il presente era il modo di preparare il futuro, nella nostra cultura il presente viene vissuto con due semplici principi: vivere la giornata e gestire le emergenze, anche nella nostra vita di fede e nella gestione dei compiti pastorali. Tutto ciò che richiede un lungo termine viene vissuto con un certo fastidio e il presente viene come isolato da entrambe i lati, dal passato e dal futuro, e quindi viene separato dalla storia, al punto che qualcuno ha definito la cultura post-moderna il tempo del presente continuo.
Le parabole della fine, proprio per questo motivo, ci invitano a riscoprire  la necessità delle opere per entrare nel regno, ci spingono a rivedere la nostra capacità di amare e si tramutano sempre in una  parenesi morale grazie alla quale siamo richiamati a ciò che è fondamentale, il modo di vivere la nostra unica vita. È significativo ricordare che l’uditorio di Gesù era al quanto sbadato, perso nel quotidiano, sommerso dalla realtà più che immerso in essa, nulla di nuovo sotto il sole. Spesso poi era costituito da persone che spadroneggiavano sul prossimo, degli  approfittatori che credevano di non  dovere  rendere conto  del loro operato e che quindi andavano scossi, perché avevano bisogno di essere responsabilizzate e soprattutto attendevano che qualcuno le facesse passare dal piano delle cose e dei problemi a quello del senso e del significato della vita. Gesù ha ben chiaro dentro di sé il primato di Dio su tutto e su tutti e vede nel Padre il bene supremo dell’uomo, per questo lo annuncia rivelando loro la durezza del loro cuore. Furono soprattutto i Padri orientali che iniziarono a leggere le parabole del giudizio vedendo nella  vigilanza interiore e nella  custodia del cuore il messaggio e la provocazione urgente per la vita spirituale del cristiano, e proposero la necessità di vegliare sui propri sentimenti e sulle proprie  fantasie come medicina preventiva contro  i due peccati contro la speranza: la presunzione che genera superficialità da una parte e la disperazione che produce moralismo dall’altra. Così anche noi siamo invitati in questo tempo di avvento a centrarci, concentrarci e decentrarci su ciò che è eterno, per entrare nella spiritualità autentica, calibrando il nostro lavoro, le nostre energie e il nostro cuore su ciò che non passa, diventando saggi e quindi più capaci di vivere bene il nostro oggi.
La parabola delle dieci vergini (Mt 25, 1-13)
«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono.A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”.  Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”. Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora.».
La parabola delle dieci vergini è forse uno degli  esempi più eloquenti di invito alla vigilanza cristiana come custodia del cuore e traduzione nelle opere buone della propria fede, un prezioso vademecum per il tempo di avvento. La parabola è costruita sul  contrasto tra due gruppi di fanciulle invitate ad un corteo nuziale e non sfugge anche ad un lettore poco esperto la presenza di tratti inverosimili e contraddittori all’interno del testo.
Sembra che Gesù non sia tanto preoccupato della logica interna del racconto, quanto piuttosto della logica che si snoda più in profondità  sul piano del significato. Come è possibile che lo sposo arrivi a mezzanotte? Che senso ha dire alle fanciulle rimaste senza olio di andare a comprarlo in piena notte? Come può uno sposo in un momento così gioioso essere  così duro? E dov’è la sposa, protagonista indiscussa di ogni matrimonio? Domande a cui sarebbe inutile tentare di rispondere, semplicemente  perché  Gesù voleva comunicare qualcosa  di più importante, di  più  serio,  di  più  urgente,  e soprattutto di  severo. La  parabola si comprende meglio se la si accosta a quella immediatamente precedente del maggiordomo fedele nel servizio:
“Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico: lo metterà a capo di tutti i suoi beni” (Mt 24, 46-47). Le due parabole costituiscono infatti come un  dittico dove l’evangelista dipinge due modi sbagliati di vivere in questo tempo: l’atteggiamento di chi calcola il ritardo della venuta del Signore e ne approfitta e l’atteggiamento di chi non è preparato ad attendere a lungo. L’attesa del Signore, il modo cristiano di vivere il tempo presente, chiede infatti di coniugare insieme prontezza e costanza.
La risposta dello sposo alle fanciulle stolte “non vi conosco” ricorda le parole forti di Gesù ai falsi discepoli “Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi  che operate l’iniquità” (Mt 7, 23). Sono falsi discepoli coloro che nel suo nome hanno profetato, cacciato demoni e operato miracoli, omettendo però di fare la sua volontà. L’imprevidenza delle fanciulle stolte consiste allora nel vivere una separazione tra il dire ed il fare, tra la preghiera e la vita: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa’  la volontà del Padre mio che è nei cieli.» (Mt 7, 21). La contrapposizione tra sagge e stolte  poi, richiama alla memoria la parabola dei due costruttori (Mt 7, 24-27): uno che edifica la casa sulla roccia, l’altro sulla sabbia. Saggezza è fondare la propria esistenza  sull’ascolto e la pratica, stoltezza è ascoltare e non fare. In questo contesto diventa significativo il fatto dell’impossibilità di comprare  in extremis l’olio necessario, l’incontro con il Signore va preparato prima, non è cosa che si possa rimediare all’ultimo momento, la furbizia di chi pensa sempre di cavarsela non serve.  Potremmo osservare in conclusione che  il punto di forza  della parabola consiste nella provocazione a non spendere male l’unica vita che ci è data, a vivere bene il presente come luogo della sintesi tra azione e contemplazione, capisaldi che la vicenda di Marta (cultura occidentale?) e Maria (cultura orientale?) ci insegna a non tenere distinti ma piuttosto uniti.
Dalle nostre Costituzioni
La vita di oblazione suscitata nei nostri cuori dall’amore gratuito del Signore
ci rende conformi all’oblazione di colui che, per amore,
è totalmente donato al Padre e totalmente donato agli uomini.
Essa ci induce a ricercare sempre più fedelmente,
con il Signore povero e obbediente,
la volontà del Padre su noi e sul mondo.
Ci rende attenti agli appelli che ci fa giungere
attraverso gli avvenimenti piccoli e grandi,
e nelle attese e realizzazioni umane. (Cst 35)
Lungi dall’estraniarci dagli uomini,
la nostra professione dei consigli evangelici
ci rende maggiormente solidali con la loro vita.
Nel nostro modo di essere e di agire,
con la partecipazione alla costruzione della città terrestre
e all’edificazione del Corpo di Cristo,
dobbiamo testimoniare efficacemente
che il Regno di Dio e la sua giustizia
devono essere cercati prima di tutto
e attraverso tutto (cf. Mt 6,33). (Cst 38) - Mons. Tonino Bello

Comunità
“Apostoli del Signore”




NB La Comunità "Apostoli del Signore" si riunisce per la Preghiera, tutti i Venerdì alle ore 18:30, presso il Santuario "Nostra Signora di Fatima" in Marcianise (Ce)

sabato 5 novembre 2011

ANNUNCIARE IL VANGELO



ANNUNCIARE IL VANGELO

Annunciare il vangelo è un "servizio" reso alla comunità cristiana e a tutta l’umanità. Le condizioni della società di oggi ci obbligano tutti a rivedere i modi e i mezzi per portare all’uomo moderno il messaggio cristiano.
Soltanto nel vangelo l’uomo può trovare la risposta ai suoi interrogativi e la forza per il suo impegno di solidarietà umana. Il patrimonio della fede c’è: si tratta di presentarlo agli uomini del nostro tempo in modo comprensibile e persuasivo. Il messaggio evangelico è necessario, unico e insostituibile.
Bisogna tradurlo senza tradirlo, viverlo e proporlo agli altri senza accomodamenti, annacquamenti e miscugli di vario genere. Rappresenta la bellezza della rivelazione. Ha in sè una saggezza che non è di questo mondo. È capace di suscitare la fede che poggia sulla potenza di Dio. Esso è la verità. Merita che l’apostolo vi consacri tutto il suo tempo, tutte le sue energie e vi sacrifichi, se è necessario, la propria vita.
Cristo evangelizzatore
"Gesù disse: Bisogna che io annunci il regno di Dio: per questo sono stato mandato" (Lc 4,43); e applica a se stesso la frase del profeta Isaia: "Lo Spirito del Signore è sopra di me... e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto annunzio (= vangelo)" (cf.Is 61,1; Lc 4, 18).
Gesù passa di città in città per proclamare il vangelo del regno di Dio: è lui il primo e più grande evangelizzatore di tutti i tempi. Il regno di Dio annunciato da Gesù è così importante che ogni altra cosa diventa "il resto" che è "dato in aggiunta".
(cf. Mt 6,33)
Nucleo centrale del vangelo: la salvezza, dono grande di Dio, liberazione da tutto ciò che opprime l’uomo, liberazione dal peccato e dal maligno, gioia di conoscere Dio e di essere conosciuti da lui, di vederlo e di abbandonarsi a lui.
Questo regno e questa salvezza ogni uomo può riceverli come grazia e misericordia e, nello stesso tempo, deve conquistarli con la forza (cf. Mt 11,12; Lc 16,16), con la fatica e la sofferenza, con una vita secondo il vangelo, con la rinuncia e la croce, con lo spirito delle beatitudini, con la conversione totale della mente e del cuore.
Questa proclamazione del regno di Dio, il Cristo la compie mediante la predicazione instancabile di una parola che non
trova l’eguale: "dottrina nuova" (Mc 1,27), "parole di grazia"
(Lc 4,22), "mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo!" (Gv 7,46).
Chiesa evangelizzatrice
Quelli che accolgono l’annuncio del vangelo si riuniscono nel nome di Gesù per cercare insieme il regno di Dio, costruirlo, viverlo. L’ordine dato agli Apostoli: "Andate, proclamate il vangelo" vale per tutti i cristiani. L’annuncio del regno di Dio è per tutti gli uomini di tutti i tempi. Chi lo ha accolto può e deve comunicarlo e diffonderlo.
Scriveva s. Paolo: "Per me evangelizzare è un dovere. Guai a me se non predicassi il vangelo!" (1 Cor 9,16). Evangelizzare è la missione essenziale della chiesa, la grazia e la vocazione propria della chiesa, la sua identità più profonda.
La chiesa esiste per evangelizzare, per predicare e insegnare, per essere il canale del dono della grazia, per riconciliare i peccatori con Dio, per perpetuare il sacrificio del Cristo nella santa messa. La chiesa è nata dalla predicazione di Gesù e degli apostoli. "Coloro che accolsero la parola furono battezzati e circa tremila si unirono ad essi... e il Signore, ogni giorno, aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati" (At 2, 41.47).
La chiesa evangelizzatrice comincia con l’evangelizzare se stessa. Ha bisogno di ascoltare continuamente ciò che deve credere, sperare, amare. Ha bisogno di conversione e di rinnovamento costanti se vuole evangelizzare il mondo con credibilità.
La chiesa manda gli evangelizzatori a predicare, ma... non a predicare se stessi, le proprie idee personali, ma il vangelo di cui né essi né essa sono padroni e proprietari assoluti.
La chiesa e gli evangelizzatori sono servitori del vangelo per trasmetterlo con estrema fedeltà. Cristo ha dato alla sua chiesa il mandato (= incarico, missione) di evangelizzare.
Questo mandato non si adempie senza di essa, né, tanto meno, contro di essa. Qualcuno dice: Io amo Cristo, ma non la chiesa; io ascolto Cristo, ma non la chiesa; io voglio appartenere a Cristo, ma fuori dalla chiesa.
È impossibile e assurdo tentare di separare Cristo dalla sua chiesa. Gesù ha detto: "Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato" (Lc 10, 16). Paolo ha scritto: "Egli (Cristo) ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei" (Ef 5,25). S. Cipriano afferma: "Non può avere Dio per padre chi non ha la chiesa per madre" (Cipriano, Sull’unità della chiesa cattolica, 6,8).
Che cosa significa evangelizzare
Evangelizzare è portare il lieto annuncio della salvezza a tutti gli strati dell’umanità, per trasformarla dal di dentro e renderla nuova.
Ma non c’è umanità nuova se prima non ci sono uomini nuovi. Questa novità nasce dal battesimo e dalla vita secondo il vangelo. La chiesa evangelizza in modo vitale, in profondità, fino alle ultime radici, la cultura e le culture dell’uomo.
Il vangelo è proclamato mediante la testimonianza della vita. A questa testimonianza tutti i cristiani sono chiamati e possono essere, sotto questo aspetto, dei veri evangelizzatori.
Questa testimonianza, tuttavia, si rivelerà impotente se non è illuminata, giustificata e esplicitata da un annuncio chiaro e inequivocabile del Signore Gesù. La buona novella proclamata dalla testimonianza di vita dovrà essere, presto o tardi, annunciata dalla parola di vita.
Non c’è vera evangelizzazione se non sono proclamati il nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il regno, il mistero di Gesù di Nazaret, figlio di Dio.
La chiesa ha un grande desiderio di evangelizzare. I problemi che 1’assillano sono: chi inviare ad annunciare il mistero di Gesù? Che linguaggio usare per farsi capire? Come fare perché l’annuncio arrivi a tutti quelli che lo devono ascoltare?
L’annuncio deve essere capito, accolto, assimilato. Deve suscitare l’adesione del cuore alla verità e al programma di vita che esso propone.
Adesione al regno, cioè al "mondo nuovo", al nuovo stato di cose, alla nuova maniera di essere, di vivere, di vivere insieme, che il vangelo inaugura. Una tale adesione non può restare astratta o disincarnata, ma si rivela concretamente mediante un ingresso visibile nella comunità dei fedeli, la chiesa, sacramento universale di salvezza.
Chi è stato evangelizzato a sua volta evangelizza. Qui è la prova della verità. È impensabile che un uomo abbia accolto la parola e si sia dato al regno di Dio senza diventare a sua volta testimone e annunciatore della parola e del regno.
In sintesi. Evangelizzare è:
rinnovamento dell’umanità,
testimonianza di vita,
annuncio esplicito,
adesione del cuore,
ingresso nella comunità,
accoglimento dei sacramenti,
iniziative di apostolato.
Questi elementi non sono in contrasto tra di loro, ma sono complementari e si arricchiscono a vicenda.
Contenuto dell’evangelizzazione
Evangelizzare è testimoniare Dio rivelato da Gesù Cristo nello Spirito Santo. Testimoniare che, nel suo Figlio, Dio ha amato il mondo, ha dato l’esistenza a tutte le cose e ha chiamato gli uomini alla vita eterna. Per l’uomo, il creatore non è una parola anonima e lontana: è il Padre. "Siamo chiamati figli di Dio e lo siamo realmente" (1 Gv 3,1).
E siamo fratelli gli uni gli altri in Dio. In Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, morto e risuscitato, la salvezza è offerta ad ogni uomo come dono di grazia e misericordia di Dio stesso. Questa salvezza oltrepassa tutti i limiti della vita presente e si realizza in Dio, ha inizio in questa vita, ma si compie nell’eternità. Il nucleo del vangelo è: proclamazione dell’amore di Dio verso di noi e del nostro amore verso di lui, predicazione dell’amore fraterno per tutti gli uomini, capacità di dono, di perdono, di abnegazione e di aiuto ai fratelli, predicazione del mistero del male e della ricerca attiva del bene, predicazione della ricerca di Dio attraverso la preghiera e i sacramenti, segni del Cristo vivente e operante nella chiesa.
L’incontro con Cristo nei sacramenti è il completamento naturale, il punto di arrivo dell’evangelizzazione. Evangelizzare è impiantare la chiesa. La chiesa non esiste senza la vita sacramentale culminante nell’eucaristia.
Il vangelo coinvolge la vita concreta, personale e sociale dell’uomo. L’evangelizzazione è un messaggio esplicito, costantemente aggiornato e applicato, sui diritti e sui doveri di ogni persona umana, sulla vita familiare, sulla vita comune nella società, sulla vita internazionale, la pace, la giustizia, lo sviluppo, la liberazione.
Fa parte dell’evangelizzazione annunziare la liberazione di milioni di esseri umani da carestie, analfabetismo, pauperismo, ingiustizia nei rapporti internazionali (specialmente negli scambi commerciali), da situazioni di neo-colonialismo economico e culturale talvolta crudele quanto l’antico colonialismo politico. Tra evangelizzazione e promozione umana ci sono legami profondi. L’uomo da evangelizzare non è un essere astratto, ma condizionato da questioni sociali e economiche.
Non si può dissociare il piano della creazione da quello della redenzione. Non si può proclamare il comandamento nuovo (amore verso il prossimo) senza promuovere l’autentica crescita dell’uomo nella giustizia e nella pace vera. Sarebbe dimenticare la lezione che ci viene dal vangelo sull’amore del prossimo sofferente e bisognoso.
Tuttavia bisogna affermare chiaramente la finalità specificamente religiosa dell’evangelizzazione: il regno di Dio prima di ogni altra cosa. La liberazione annunciata dall’evangelizzazione non può limitarsi alla semplice dimensione economica, politica, sociale e culturale, ma deve mirare all’uomo tutto intero in ogni sua dimensione, compresa la sua apertura verso l’assoluto di Dio.
La chiesa non circoscrive la sua missione al solo campo religioso, disinteressandosi dei problemi dell’uomo, ma afferma il primato della sua vocazione spirituale. Il suo contributo alla liberazione è incompleto se trascura di annunciare la salvezza in Cristo. La chiesa collega ma non identifica mai liberazione umana e salvezza in Cristo; sa che non basta instaurare la liberazione, cercare il benessere e lo sviluppo, perché venga il regno di Dio.
La chiesa ritiene importante e urgente edificare strutture più umane, più giuste, più rispettose dei diritti della persona, meno oppressive e meno coercitive, ma sa anche che le migliori strutture, i sistemi meglio idealizzati diventano presto inumani se le inclinazioni inumane del cuore dell’uomo non vengono risanate, se non c’è una conversione del cuore e della mente di coloro che vivono in queste strutture e le dominano.
La chiesa non può accettare la violenza, la forza delle armi né la morte di nessuno come cammino di liberazione, perché sa che la violenza chiama sempre violenza e genera irresistibilmente nuove forme di oppressione e di schiavitù più pesanti di quelle dalle quali essa pretendeva liberare.
"Vi esortiamo a non mettere la vostra fiducia nella violenza né nella rivoluzione; tale atteggiamento è contrario allo spirito cristiano e può anche ritardare e non favorire l’elevazione sociale alla quale legittimamente aspirate"; "dobbiamo dire e riaffermare che la violenza non è né cristiana né evangelica e che i mutamenti bruschi o violenti delle strutture sarebbero fallaci e inefficaci in se stessi e certamente non conformi alla dignità del popolo" (Paolo VI; 22-23 agosto 1968).
La chiesa cosa fa in concreto? Suscita numerosi cristiani che si dedichino alla liberazione degli altri; offre loro una ispirazione di fede, una motivazione di amore fraterno, un insegnamento sociale da tradurre sapientemente in azione, partecipazione e impegno.
La chiesa si sforza di inserire sempre la lotta cristiana per la liberazione nel disegno globale della salvezza che essa annuncia: liberazione che Cristo ha donato all’uomo mediante il suo sacrificio.
La libertà religiosa occupa un posto di primaria importanza tra i diritti fondamentali dell’uomo.
Le vie dell’evangelizzazione
Occorre ricercare con audacia e saggezza i modi più adatti e più efficaci per comunicare il vangelo agli uomini del nostro tempo. Primo mezzo di evangelizzazione: testimonianza di vita autenticamente cristiana. L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri. Se ascolta i maestri lo fa perché sono testimoni.
La chiesa evangelizza con la sua testimonianza di santità vissuta. Non sottovalutiamo tuttavia l’importanza e la necessità della predicazione.
La fede dipende dalla predicazione della parola di Dio: la predicazione è sempre indispensabile.
La stanchezza che provocano ai nostri giorni tanti discorsi vuoti non deve far diminuire la forza della parola né far perdere la fiducia in essa.
La parola resta sempre attuale, soprattutto quando è portatrice della potenza di Dio (Cf. 1 Cor 2,1-5). Per questo resta ancora attuale la frase di s. Paolo: "La fede dipende dalla predicazione" (Rm 10,17). La parola ascoltata porta alla fede.
L’omelia è strumento valido e adattissimo di evangelizzazione purché esprima la fede profonda di chi predica e sia impregnata d’amore. L’omelia deve essere: semplice, chiara, diretta, adatta, profondamente radicata nell’insegnamento evangelico e fedele all’insegnamento della chiesa, animata da ardore apostolico, piena di speranza, nutriente per la fede, generatrice di pace e di unità.
L’insegnamento catechetico e l’insegnamento religioso sistematico non devono rimanere solo a livello intellettuale, ma devono formare abitudini di vita cristiana.
Bisogna preparare buoni catechisti preoccupati di perfezionarsi in questa arte superiore. Le condizioni attuali rendono sempre più urgente l’insegnamento catechetico sotto forma di catecumenato per numerosi giovani e adulti che, toccati dalla grazia, scoprono a poco a poco il volto di Cristo e provano il bisogno di donarsi a lui.
L’evangelizzazione non può fare a meno dei mezzi di comunicazione sociale: servendosi di essi, la chiesa "predica sui tetti" (cf. Mt 10, 26) e riesce a parlare alle moltitudini.
La trasmissione del vangelo da persona a persona mantiene sempre la sua validità e importanza (cf. conversazioni di Gesù con Nicodemo, Zaccheo, la samaritana...).
Attraverso il sacramento della penitenza, il dialogo personale, la direzione spirituale, i sacerdoti guidano le persone nelle vie del vangelo. L’evangelizzazione manifesta tutta la sua ricchezza quando crea un rapporto intimo tra parola di Dio e sacramenti. Tra evangelizzazione e sacramenti non c’è contrapposizione.
Il compito dell’evangelizzazione è precisamente quello di educare alla fede in modo che essa conduca il cristiano a vivere i sacramenti come veri sacramenti della fede e non a riceverli passivamente senza capirne il significato, privandoli così in gran parte, della loro efficacia.
La pietà popolare è ricca di valori, ma ha certamente dei limiti. Resta spesso a livello di manifestazione di culto senza impegnare a una autentica adesione di fede.
Ben orientata, può essere un vero incontro con Dio in Gesù Cristo per le masse popolari. Essa manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere.
Destinatari dell’evangelizzazione
Le ultime parole di Gesù nel vangelo di Marco: "Andate in tutto il mondo a predicare il vangelo ad ogni creatura" (Mc 16,15) conferiscono alla evangelizzazione una universalità senza frontiere.
I primi cristiani hanno ben compreso la lezione di questo testo e di altri simili e ne hanno fatto un programma di azione.
La stessa persecuzione (cf. At 8,1) ha contribuito a disseminare la Parola e a far impiantare la chiesa in regioni più lontane.
Oggi l’opera evangelizzatrice della chiesa è fortemente contrastata e impedita dai poteri pubblici. Annunciatori della parola di Dio sono privati dei loro diritti, perseguitati, minacciati, eliminati per il solo fatto di predicare Gesù Cristo e il suo vangelo. Nonostante tali avversità, la chiesa ravviva la sua ispirazione più profonda che le viene direttamente dal Maestro: A tutto il mondo! A tutte le creature! Fino agli estremi confini della terra!
Fin dal mattino della Pentecoste il programma fondamentale della chiesa è stato questo: rivelare Gesù Cristo e il suo vangelo a quelli che non li conoscono.
A causa di situazioni di scristianizzazione frequenti ai nostri giorni questo primo annuncio (Kerygma) si dimostra sempre più necessario per moltitudini di persone che hanno ricevuto il battesimo ma vivono completamente al di fuori della vita cristiana, per gente semplice che ha una certa fede ma ne conosce male i fondamenti, per intellettuali che sentono il bisogno di conoscere Gesù in una luce diversa dall’insegnamento ricevuto nello loro infanzia, e per molti altri.
Le religioni non cristiane portano in sé l’eco di millenni di ricerca di Dio. Posseggono un patrimonio impressionante di testi profondamente religiosi. Hanno insegnato a generazioni di persone a pregare. Sono ricche di "germi del Verbo" e possono essere un’autentica preparazione al vangelo.
L’incontro dei missionari di oggi e di domani con le religioni non cristiane suscita questioni complesse e delicate. Tuttavia, né il rispetto e la stima verso queste religioni, né la complessità dei problemi sollevati, sono per la chiesa un invito a tacere l’annuncio di Cristo di fronte ai non cristiani.
Al contrario la chiesa pensa che queste moltitudini hanno il diritto di conoscere la ricchezza del mistero di Cristo (cf. Ef 3,8) nella quale tutta l’umanità può trovare tutto ciò che essa cerca a tentoni su Dio, sull’uomo e sul suo destino, sulla vita e sulla morte, sulla verità.
La religione di Gesù mette oggettivamente l’uomo in rapporto con Dio. La nostra religione instaura effettivamente con Dio un rapporto autentico e vivente che le altre religioni non riescono a stabilire. Per questo la chiesa mantiene vivo lo slancio missionario e vuole intensificarlo nel nostro momento storico. Si sente responsabile di fronte a popoli interi. Lo slancio apostolico non è esaurito, l’epoca delle missioni non è tramontata. L’annuncio missionario non si inaridisce. La chiesa sarà sempre tesa verso il suo adempimento.
La chiesa non si sente dispensata da una attenzione altrettanto infaticabile nei confronti di coloro che hanno ricevuto la fede e che da generazioni sono a contatto con il vangelo. Essa cerca di approfondire, consolidare, nutrire, rendere sempre più matura la fede di coloro che si dicono già fedeli e credenti, perché lo siano maggiormente.
Questa fede è oggi posta a confronto con il secolarismo e l’ateismo, esposta a prove e minacciata, assediata e combattuta. Essa rischia di perire per asfissia o per inedia se non è continuamente animata e sostenuta.
Nel mondo moderno aumenta la non credenza e il secolarismo. Il secolarismo è una concezione del mondo nella quale questo si spiega da sé senza che ci sia bisogno di ricorrere a Dio, divenuto in tal modo superfluo e ingombrante. Per riconoscere il potere dell’uomo si finisce col fare a meno di Dio e anche col negarlo. Nuove forme di ateismo - ateismo antropocentrico, non più astratto o metafisico ma pragmatico, programmatico e militante sembrano derivarne. In connessione con questo secolarismo ateo, ci vengono proposti tutti i giorni, sotto le forme più svariate, la civiltà dei consumi, l’edonismo elevato a valore supremo, la volontà di potere e di dominio, discriminazioni di ogni tipo: altrettante inclinazioni inumane di questo umanesimo. In questo mondo moderno non si può negare l’esistenza di vari addentellati cristiani, di valori evangelici, per lo meno sotto forma di vuoto o di nostalgia. Non sarebbe esagerato parlare di una possente e tragica invocazione ad essere evangelizzato.
I non praticanti (un gran numero di battezzati) non hanno rinnegato formalmente il loro battesimo ma ne sono completamente al margine e non lo vivono. Il fenomeno dei non praticanti è molto antico nella storia del cristianesimo, è legato ad una debolezza naturale, ad una profonda incoerenza che, purtroppo, ci portiamo dentro. Esso presenta oggi delle caratteristiche nuove. Si spiega mediante gli sradicamenti tipici della nostra epoca e nasce dal fatto che i cristiani vivono a fianco dei non credenti e ne ricevono i contraccolpi della non credenza. I non praticanti contemporanei cercano di spiegare e giustificare la loro posizione in nome di una religione interiore, dell’autonomia e dell’autenticità personali. Atei e non credenti da una parte, non praticanti dall’altra, oppongono all’evangelizzazione resistenze non trascurabili.
Atei e non credenti oppongono la resistenza di un certo rifiuto, l’incapacità di cogliere il nuovo ordine delle cose, il nuovo senso del mondo, della vita, della storia che non è possibile se non si parte dall’assoluto di Dio.
I non praticanti oppongono la resistenza dell’inerzia, l’atteggiamento un po’ ostile di qualcuno che si sente di casa, che afferma di sapere tutto, di aver gustato tutto, di non credere più. Secolarismo ateo e assenza di pratica religiosa si trovano presso gli adulti e presso i giovani, presso l’élite e nelle masse, in tutti i settori culturali, nelle antiche come nelle giovani chiese.
L’azione evangelizzatrice della chiesa non può ignorare questi due mondi né arrestarsi davanti ad essi, deve cercare costantemente i mezzi e il linguaggio adeguati per proporre o riproporre loro la rivelazione di Dio e la fede in Gesù Cristo.
La chiesa vede davanti a sé un’immensa folla umana che ha bisogno del vangelo e vi ha diritto perché Dio "vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità" (1 Tm 2,4). Sa di avere il dovere di predicare la salvezza a tutti. Sa che il messaggio evangelico non è riservato a un piccolo gruppo di eletti, ma è destinato a tutti. La chiesa fa propria l’angoscia di Cristo di fronte alle folle sbandate e sfinite "come pecore senza pastore" e ripete spesso la sua parola: "Sento compassione di questa folla" (Mt 9,36;15,32).
La chiesa è cosciente che per l’efficacia della predicazione evangelica nel cuore delle masse deve indirizzare il suo messaggio a comunità di fedeli la cui azione può e deve giungere agli altri. Queste comunità di fedeli o "comunità ecclesiali di base" (movimenti, gruppi spontanei...) saranno un luogo di evangelizzazione e una speranza per la chiesa universale nella misura in cui: cercano il loro alimento nella parola di Dio e non si lasciano imprigionare dalle ideologie di moda; evitano la contestazione sistematica e lo spirito ipercritico; restano fedelmente attaccate alla chiesa locale e universale, evitando così il pericolo di isolarsi in se stesse, di credersi l’unica chiesa di Cristo; conservano una sincera comunione con i pastori che il Signore dà alla sua chiesa e col magistero che lo Spirito di Cristo ha loro affidato; non si considerano l’unico destinatario o l’unico artefice di evangelizzazione o l’unico depositario del vangelo, ma, consapevoli che la chiesa è molto più vasta e diversificata, accettano che questa chiesa si incarni anche in modi diversi da quelli che avvengono in esse; crescono ogni giorno in consapevolezza, zelo, impegno e irradiazione missionari; si mostrano universalistiche e non settarie.
A queste condizioni "le comunità ecclesiali di base" corrisponderanno alla loro fondamentale vocazione: ascoltatrici del vangelo e destinatarie privilegiate dell’evangelizzazione, diventeranno annunciatrici del vangelo.
Operai dell’evangelizzazione
Alla chiesa per "mandato divino incombe l’obbligo di andare nel mondo universo a predicare il vangelo ad ogni creatura" (Conc. Vat.II). "Tutta la chiesa è missionaria e l’opera evangelizzatrice è un dovere fondamentale del popolo di Dio" (Conc. Vat. II).
Evangelizzare non è mai stato un atto individuale e isolato, ma profondamente ecclesiale. Quindi nessun evangelizzatore è padrone assoluto della propria azione evangelizzatrice, ma deve compierla in comunione con la chiesa e con i suoi pastori.
Il Signore ha voluto la sua chiesa universale senza confini e senza frontiere. Il cristiano deve avere piena coscienza di appartenere ad una grande comunità che né lo spazio né il tempo possono limitare.
Non può quindi limitare i suoi orizzonti al suo gruppo, alla sua parrocchia, alla sua diocesi: cattolico vuol dire universale.
Il papa e i vescovi hanno il dovere e il diritto, per primi, di predicare e di far predicare il vangelo della salvezza.
Al papa e ai vescovi sono associati, come responsabili a titolo speciale, i sacerdoti e i diaconi. Più di qualunque altro membro della chiesa sono invitati a prendere coscienza di questo dovere!
I religiosi trovano nella loro vita consacrata un mezzo privilegiato per una evangelizzazione efficace.
Sono testimoni della santità della chiesa. Questa testimonianza è al primo posto in ordine all’evangelizzazione. Essi hanno dato e continuano a dare un apporto immenso all’evangelizzazione. Proprio per la loro consacrazione religiosa, sono volontari e liberi per lasciare tutto e andare ad annunziare il vangelo fino ai confini del mondo. Sono intraprendenti.
Il loro apostolato è contrassegnato da originalità e genialità che costringono all’ammirazione. Sono generosi: li si trova spesso agli avamposti della missione e assumono i più grandi rischi per la loro salute e per la loro stessa vita.
I laici devono esercitare una forma singolare di evangelizzazione. Devono mettere in atto tutte le possibilità cristiane e evangeliche nascoste, ma presenti e operanti nella realtà del mondo.
Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell’economia, della cultura, delle scienze e delle arti, della vita internazionale, degli strumenti di comunicazione sociale, di quelle realtà particolarmente aperte all’evangelizzazione come l’amore, la famiglia, l’educazione dei bambini e degli adolescenti, il lavoro professionale, la sofferenza.
Più ci saranno laici penetrati di spirito evangelico, responsabili di queste realtà e impegnati in esse, competenti nel promuoverle e consapevoli di dover sviluppare tutta la loro capacità cristiana, spesso tenuta nascosta e soffocata, tanto più queste realtà si troveranno al servizio della edificazione del regno di Dio e della salvezza in Gesù Cristo.
La famiglia ha ben meritato durante tutta la storia della chiesa la bella definizione di "chiesa domestica" (Lumen Gentium 11). In ogni famiglia cristiana dovrebbero riscontrarsi i diversi aspetti della chiesa intera.
La famiglia è una realtà nella quale il vangelo viene trasmesso e da cui il vangelo si irradia. Nell’intimo di una famiglia cosciente di questa missione, tutti i componenti evangelizzano e sono evangelizzati.
I genitori comunicano il vangelo ai figli e ricevono dai figli lo stesso vangelo profondamente vissuto. Una simile famiglia diventa evangelizzatrice di molte altre famiglie e dell’ambiente nel quale è inserita.
Le circostanze ci invitano a rivolgere una attenzione tutta speciale ai giovani. Il loro aumento numerico, la loro presenza crescente nella società, i problemi che li assillano devono risvegliare in tutti la preoccupazione di offrire loro, con zelo e con intelligenza, 1’ideale evangelico da conoscere e da vivere.
Occorre che i giovani, ben formati nella fede e nella preghiera diventino sempre più gli apostoli della gioventù. La chiesa fa molto affidamento su di loro e manifesta fiducia verso di essi. La presenza attiva dei laici nelle realtà del mondo è importante, ma non bisogna dimenticare l’altra dimensione: i laici possono sentirsi chiamati o essere chiamati a collaborare con i pastori nel servizio della comunità ecclesiale esercitando ministeri diversissimi.
Accanto ai ministri ordinati (vescovi, preti, diaconi, che hanno ricevuto il sacramento dell’ordine) la chiesa riconosce il ruolo di ministri non ordinati, per esempio quelli di catechista, di animatori della preghiera e del canto, di servizio alla parola di Dio, di assistenza ai fratelli bisognosi, di capi di piccole comunità, di responsabili di movimenti apostolici...
La chiesa ha in particolare stima tutti i laici che accettano di consacrare una parte del loro tempo, delle loro energie e, talvolta, la loro vita intera, al servizio delle missioni.
Per tutti gli operai della evangelizzazione è necessaria una seria preparazione, soprattutto per coloro che si dedicano al ministero della parola. L’arte di parlare ha una grandissima importanza.
Questa seria preparazione accrescerà la sicurezza indispensabile, ma anche l’entusiasmo per annunciare Gesù Cristo oggi.
Lo Spirito dell’evangelizzazione
L’evangelizzazione non sarà mai possibile senza l’azione dello Spirito Santo. Gesù ha iniziato la sua predicazione "con la potenza dello Spirito" (Lc 4,14).
Soltanto dopo la discesa dello Spirito Santo gli apostoli partono verso tutte le direzioni del mondo per cominciare la grande opera di evangelizzazione della chiesa.
Lo Spirito Santo che fa parlare Pietro, Paolo e gli altri apostoli, discende anche " sopra tutti coloro che ascoltavano il discorso" (At 10,44). Lo Spirito è l’anima della chiesa.
È lui che oggi come agli inizi della chiesa, opera in ogni evangelizzatore che si lasci possedere e condurre da lui, che gli suggerisce le parole che da solo non saprebbe trovare, predisponendo nello stesso tempo l’animo di chi ascolta perché si apra ad accogliere il vangelo e il regno. Le tecniche dell’evangelizzazione sono buone, ma non possono sostituire l’azione dello Spirito.
Anche la preparazione più raffinata dell’evangelizzatore non opera nulla senza di lui. Noi stiamo vivendo nella chiesa un momento privilegiato dello Spirito. Si cerca da per tutto di conoscerlo meglio, quale è rivelato dalle Scritture. Si è felici di mettersi sotto la sua mozione. Ci si raccoglie attorno a lui e ci si vuol lasciare guidare da lui.
Lo Spirito di Dio ha un posto eminente in tutta la vita dalla chiesa, ma agisce soprattutto nella missione evangelizzatrice: non a caso il grande inizio dell’evangelizzazione avvenne il mattino di Pentecoste, sotto il soffio dello Spirito.
Lo Spirito è l’agente principale dell’evangelizzazione e il termine dell’evangelizzazione: egli solo suscita la nuova creazione, l’umanità nuova con quella unità nella varietà che l’evangelizzazione tende a provocare nella comunità cristiana. Per mezzo di lui il vangelo penetra nel cuore del mondo. Il ruolo dello Spirito Santo è fondamentale: bisogna studiare meglio la natura e il modo di agire dello Spirito Santo nell’odierna evangelizzazione.
Gli evangelizzatori preghino incessantemente lo Spirito Santo con fede e fervore, si lascino prudentemente guidare da lui quale ispiratore decisivo dei loro programmi e delle loro iniziative, della loro attività evangelizzatrice.
Consideriamo ora la persona stessa degli evangelizzatori. Si ripete spesso che il nostro secolo ha sete di autenticità. Dei giovani si dice che hanno orrore del fittizio, del falso e ricercano la verità e la trasparenza. Tacitamente o con alte grida, ma sempre con forza ci domandano: Credete veramente a quello che annunciate? Vivete quello che credete? Predicate veramente quello che vivete?. La testimonianza della vita è diventata più che mai una condizione essenziale per l’efficacia profonda della predicazione.
Bisogna che il nostro zelo per l’evangelizzazione scaturisca da una vera santità di vita e che la predicazione, alimentata dalla preghiera e dall’amore all’eucaristia, faccia crescere in santità colui che predica.
Il mondo reclama evangelizzatori che gli parlino di un Dio che essi conoscono, che è loro familiare, come se vedessero l’invisibile (cf. Eb 11,27). Il mondo esige e aspetta da noi semplicità di vita, spirito di preghiera, carità verso tutti specialmente verso i piccoli e i poveri, ubbidienza e umiltà, distacco da noi stessi e rinuncia. Senza questo contrassegno della santità, la nostra parola difficilmente si aprirà la strada nel cuore dell’uomo del nostro tempo, ma rischia di essere vana e infeconda.
La forza dell’evangelizzazione risulterà molto diminuita se coloro che annunziano il vangelo sono divisi tra di loro da tante specie di rottura. Questo è uno dei grandi malesseri dell’evangelizzazione oggi. Se il vangelo che proclamiamo appare lacerato da discussioni dottrinali, da polarizzazioni ideologiche e da condanne reciproche tra cristiani in balia delle loro diverse teorie sul Cristo e sulla chiesa e anche a causa delle loro diverse concezioni sulla società e le istituzioni umane, come potrebbero coloro a cui è rivolta la nostra predicazione non sentirsene turbati, disorientati, scandalizzati? Il testamento spirituale del Signore ci dice che l’unità tra i suoi seguaci non è soltanto la prova che noi siamo suoi, ma anche che egli è l’inviato del Padre, criterio di credibilità dei cristiani e di Cristo stesso.
Gli evangelizzatori devono offrire una immagine di persone mature nella fede, capaci di trovarsi insieme al di sopra delle tensioni concrete, grazie alla ricerca comune, sincera e disinteressata della verità.
La sorte dell’evangelizzazione è legata alla testimonianza di unità data dalla chiesa. La divisione tra i cristiani è un grave stato di fatto che arriva a intaccare la stessa opera di Cristo: "Essa è di grave pregiudizio alla santa causa della predicazione del vangelo a tutti gli uomini e impedisce a molti di abbracciare la fede" (Conc. Vat. II, Att. Miss. d. Chiesa, 6).
"La riconciliazione di tutti gli uomini con Dio, nostro Padre, dipende dal ristabilimento della comunione di coloro che già hanno conosciuto e accolto nella fede Gesù Cristo come Signore della misericordia che libera gli uomini e li unisce nello Spirito di amore e di verità" (Bolla "Apostolorum Limina". Paolo VI 1974).
Il vangelo è parola di verità. Una verità che rende liberi (cf. Gv 8, 32) e che sola può donare la pace del cuore. Questo cercano gli uomini quando annunziamo la buona novella: verità su Dio, verità sull’uomo e sul suo destino misterioso, verità sul mondo. Da ogni evangelizzatore ci si attende che abbia il culto della verità. Il predicatore del vangelo sarà dunque colui che, anche a prezzo della rinuncia personale e della sofferenza, ricerca sempre la verità che deve trasmettere agli altri.
Egli non tradisce né dissimula mai la verità per piacere agli uomini, per stupire o sbalordire, né per originalità o desiderio di mettersi in mostra. Egli non rifiuta la verità; non offusca la verità rivelata per pigrizia nel cercarla, per comodità o per paura. Non trascura di studiarla; la serve generosamente senza asservirla.
L’opera dell’evangelizzazione suppone nell’evangelizzatore un amore fraterno sempre crescente verso coloro che egli evangelizza. L’apostolo Paolo, modello di ogni evangelizzatore, scriveva: "Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari" (1 Ts 2,8). Affetto non tanto di pedagogo, ma di padre e di madre (cf. 1 Ts 2,7.11; 1 Cor 4,15; Gal 4,19).
Un segno di amore, oltre al rispetto dell’altro, sarà lo sforzo di trasmettere ai cristiani non dubbi e incertezze nati da una erudizione male assimilata, ma alcune certezze solide, ancorate alla parola di Dio.
I fedeli hanno bisogno di queste certezze per la loro vita cristiana, ne hanno diritto in quanto sono figli di Dio che si abbandonano interamente alle esigenze del suo amore.
Tra gli ostacoli all’evangelizzazione ci limiteremo a segnalare la mancanza di fervore,tanto più grave perché nasce dal di dentro.
Essa si manifesta nella stanchezza, nella delusione, nell’accomodamento, nel disinteresse e, soprattutto, nella mancanza di gioia e di speranza.
Noi esortiamo tutti gli evangelizzatori ad alimentare il fervore dello Spirito. Questo fervore esige prima di tutto che ci sappiamo sottrarre agli alibi che possono sviare dall’evangelizzazione.
Si sente dire spesso: imporre una verità, sia pure quella del vangelo, imporre una via, sia pure quella della salvezza, è una violenza alla libertà religiosa.
E aggiungono: perché annunciare il vangelo dal momento che tutti sono salvati dalla rettitudine del cuore?
Sarebbe un errore imporre qualcosa alla coscienza dei nostri fratelli. Ma proporre a questa coscienza la verità evangelica e la salvezza in Gesù Cristo con piena sicurezza e nel rispetto assoluto delle libere scelte, non è attentato alla libertà religiosa, ma un omaggio a questa libertà, alla quale viene offerta la scelta di una via che gli stessi non credenti stimano nobile ed esaltante. È dunque un crimine contro la libertà altrui proclamare nella gioia, una buona novella che si è appresa per misericorda di Dio? E perché solo la menzogna e l’errore, la degradazione e la pornografia avrebbero il diritto di essere proposti e spesso, purtroppo, imposti dalla propaganda distruttiva dei mass-media, dalla tolleranza dei buoni e dalla temerità dei cattivi? Questo modo rispettoso di proporre il Cristo e il suo regno più che un diritto è un dovere dell’evangelizzatore. Ed è un diritto degli uomini suoi fratelli di ricevere da lui l’annuncio del vangelo di salvezza.
Questa salvezza Dio la può compiere in chi egli vuole attraverso vie straordinarie che solo lui conosce. Però non dimentichiamo che il Figlio di Dio è venuto apposta per rivelarci, con la sua parola e la sua vita, i sentieri ordinari della salvezza. E ci ha ordinato di trasmettere agli altri questa rivelazione con la sua stessa autorità.
Ogni cristiano approfondisca nella preghiera questo pensiero: gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla misericordia di Dio, anche se non annunciamo loro il vangelo; ma potremo noi salvarci se, per negligenza, per paura, per vergogna o in conseguenza di idee false, trascuriamo di annunziarlo? Sarebbe tradire la chiamata di Dio che per mezzo dei ministri del vangelo vuol far germinare la semente; dipende da noi che questa diventi un albero e produca tutto il suo frutto.
Conserviamo dunque il fervore dello spirito. Conserviamo la gioia di evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime. Possa il mondo del nostro tempo che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza, ricevere la buona novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del vangelo la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia di Cristo, e accettino di mettere in gioco la propria vita affinchè il regno di Dio sia annunciato e la chiesa sia impiantata nel cuore del mondo.
Una moltitudine di fratelli cristiani e non cristiani attendono dalla chiesa la parola della salvezza.
Nel programma di azione pastorale della chiesa l’evangelizzazione è l’aspetto fondamentale per questi anni che segnano la vigilia di un nuovo secolo, la vigilia anche di un terzo millennio del cristianesimo.
La santissima Vergine Maria, al mattino della Pentecoste, ha presieduto con la sua preghiera all’inizio dell’evangelizzazione sotto l’azione dello Spirito Santo; sia lei la stella della evangelizzazione sempre rinnovata che la chiesa, docile al mandato del Signore, deve promuovere e adempiere, soprattutto in questi tempi difficili ma pieni di speranza!

mercoledì 2 novembre 2011

Conoscerete la Verità e la Verità vi farà liberi...

“La verità vi farà liberi” Cristianesimo e libertà




Partiamo e soffermiamoci su un testo importante della Parola di Dio sul tema della libertà su cui cercheremo di farne emergere il contenuto, che è la verità nel suo rapporto con la libertà. Il testo è tratto dal Vangelo di Giovanni, in cui c’è l’affermazione: “La verità vi farà liberi”, frase suggestiva, ma anche oscura.

(Gv 8, 31-47) Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?». Gesù rispose: «In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre; se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. So che siete discendenza di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova posto in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro!». Gli risposero: «Il nostro padre è Abramo». Rispose Gesù: «Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo! Ora invece cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da Dio; questo, Abramo non l’ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero: «Noi non siamo nati da prostituzione, noi abbiamo un solo Padre, Dio!». Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alle mie parole, voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può convincermi di peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio».

Occorre esplicitare questo difficile testo per far emergere il rapporto tra verità e libertà, per spiegare perché non esiste libertà se non nella verità. Questo è uno dei punti essenziali della rivelazione cristiana. Qui si coglie uno dei punti essenziali del ministero di Cristo.
Questo discorso è fatto da Gesù a quei giudei che avevano creduto il lui, cioè che avevano incominciato a seguirlo. Lascia perplessi il fatto che questi giudei che lo seguono abbiano poi il desiderio di ucciderlo. La cosa si può spiegare nel fatto che questi giudei, pur seguendo Gesù, sono diventati sempre più perplessi; le sue parole non avevano trovato spazio nel loro cuore; probabilmente avevano seguito qualche loro progetto che poi non si stava realizzando e stavano chiudendo il loro cuore a Gesù, convinti che Lui non poteva più continuare così. Avevano, senza accorgersene, regredito; erano entrati in una sorta di realtà a lui ostile.
Gesù si rivolge a queste persone così: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli». Si diventa discepoli di Gesù soltanto prendendo dimora nella sua parola, accogliendola nelle profondità del cuore, cioè con grande fiducia e disponibilità in Lui. Solo così si diventa suoi discepoli e questo permetterà di conoscere la verità. Questa verità renderà libero il discepolo.
Questi giudei, però, si sentono già liberi, non schiavi di nessuno, sono discendenza di Abramo, appartengono al popolo eletto; come poteva Gesù dir loro che sarebbero in questo modo diventare liberi?
Le frasi che consideriamo sono: «la verità vi farà liberi» e «diventerete liberi». Per diventare liberi occorre lasciare che qualcuno operi nei nostri confronti in modo tale da renderci liberi; il soggetto è la libertà.
Poniamoci ora la domanda: «Che cosa significa essere liberi?» La risposta del Vangelo e di Gesù rimanda a essere lasciati resi tali a partire dalla verità. Qui s’introduce il tema del peccato: «Chi fa il peccato è schiavo del peccato». E se uno è schiavo non potrà entrare a pieno titolo nella casa; solo se uno è figlio lo potrà fare. Gesù aggiunge: «Se però il Figlio vi renderà liberi, lo sarete davvero». La prima sensazione è che non c’è un rapporto tra queste due affermazioni, ma, meditando queste parole si acquista la sensazione che c’è un rapporto tra la verità e il Figlio. Si ha ancora la sensazione che la verità ha a che fare con l’appartenenza alla casa di Dio, al prendere dimora là dove Dio abita; più precisamente, fare esperienza della sua paternità; il Gesù dice, infatti: «Se il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi». Gesù parla anche della paternità di Dio, in quanto quegli ebrei avevano affermato di non essere figli di prostituzione, di avere un solo padre, Dio. Il tema della paternità di Dio si collega al tema della figliolanza da parte di Gesù. Gesù spiega loro che non stanno facendo l’esperienza della paternità di Dio, quella sola che consente di essere veramente liberi. Spiega a quei giudei che l’esperienza della loro vita li faceva comportare in un modo che testimoniava che non erano liberi. Che erano nella condizione di chi non si lascia liberare e condurre nell’esperienza di vivere pienamente nella libertà. Che cosa stavano facendo questi giudei? Gesù dice: «Chi commette peccato, è schiavo del peccato», quindi non è libero. Chi commette peccato, la forma della sua vita è nel peccato, potrebbe credere, illudersi, dichiarare di essere libero, ma non lo è realmente.
Qui occorre porsi l’altra domanda: «Che cos’è il peccato?» La risposta a “fare il peccato” è molto meno difficile di quella a “che cos’è il peccato?” Quando si dice che uno è schiavo del peccato che significa? Che è condizionato dal peccato oppure che fa il peccato perché già prima era schiavo del peccato? Il peccato è solo l’atto peccaminoso che compie, oppure è anche tutto ciò che lo precede? La parola “peccato” è solo il singolare della parola più usata “peccati”, oppure essa non s’identifica solo con la singola azione che si commette? Probabilmente è il secondo caso. Gesù a questo punto si concentra su questa parola “peccato” che a suo giudizio non è separabile dalla parola “libertà”. Gesù continua: «Voi fate ciò che avete udito dal padre vostro». Gesù denuncia, svela a quei giudei la situazione in cui si trovano, che avevano progettato di ucciderlo. A questa intenzione ingiusta, che cosa sta dietro? Essi erano già nel peccato, anche se non lo avevano ancora commesso. L’avere coltivato tale intenzione già li aveva posti in una realtà di schiavitù, anche nell’illusione di essere liberi. Questa intenzione omicida rimanda a una paternità oscura, tenebrosa e mortale, perché volevano uccidere un uomo che aveva detto la verità ascoltata presso il Padre. C’è una contraddizione tra due paternità, mentre si parla di Chi è veramente Figlio. Qual è l’altra paternità? Gesù spiega: «Voi fate le opere del padre vostro». Essi ribattono: «Il padre nostro è Dio». Quando tutto questo è portato al suo epilogo, Gesù dichiara: «Voi provenite da quel padre che è il diavolo; volete dare attuazioni ai desideri – letteralmente da greco: alle passioni – del padre vostro»; sono i desideri ispirati dalla volontà di potenza.
Il termine “diabolus” significa “colui che separa”; significa il contrario della comunione. Il diavolo è colui che taglia le relazioni; interviene a isolare l’uomo chiudendolo su se stesso e impedendogli di vivere le tre relazioni fondamentali: con Dio, con l’altro e con le cose. Fa in modo che l’uomo condivida le sue “passioni” che diventano passioni mortali, distruttive, rispondendo a quella logica di autodeterminazione, isolamento, egoismo, assolutizzazione del proprio io. È tipico del “diabolus” di tagliare tutti e legami e di trovarsi da solo. Questo fa il diavolo in ambito umano, che la persona, credendosi libera, si consegni liberamente, ma in realtà come schiavo, alle sue “passioni” che lo porta ad agire in modo distruttivo, in questo caso a uccidere.
Perché queste persone vogliono uccidere Gesù? Solo per antipatia? Lo vogliono, invece, per ragioni che essi stanno coltivando dentro di sé e che hanno una radice velenosa. Ciò che Gesù offriva era diametralmente all’opposto di ciò che essi continuavano a desiderare. Del diavolo si afferma che egli è fin dal principio omicida, cioè che ha come fine la morte dell’uomo e che il suo modo di procedere è quello della menzogna, è mentitore per definizione. È padre della menzogna, ma nello stesso tempo può diventare padre degli uomini. Fa impressione il fatto che Gesù usi il termine di paternità e lo applica al diavolo; gli uomini possono essere figli del diavolo. C’è una specie di analogia tra l’essere figli del Padre che sta nei cieli e l’essere figli del diavolo. Qui s’intuisce che chi è figlio del Padre che sta nei cieli, è veramente libero, chi è figlio del diavolo non lo è.
Come si fa a capire chi è figlio del diavolo? Ci interessano le sue caratteristiche. Di Giuda il vangelo di Giovanni dice che Satana entrò in lui. Giuda diventa un indemoniato, pur mantenendo il suo aspetto normale, pur non schiumando. Però Giuda diventa l’omicida; consegna Gesù per essere crocefisso. Giuda, adagio, adagio, era entrato in sintonia con ciò che è diabolico, creando le condizioni affinché questo avvenisse. Giuda è diventato sempre più come il diavolo, fino al punto di identificarsi. Si usa il termine “desiderio” che è la tensione cui l’io è portato a guardare tutto a partire da sé nella ricerca spasmodica che l’io fa, per cui tutte le relazioni che vive sono del tutto funzionali a se stesso; tutto questo va sotto il nome di “passioni”. Su questo tema hanno riflettuto lungamente i padri della Chiesa. Essi hanno identificato otto passioni che sono poi diventate sette nel catechismo di san Pio X. Le abbiamo chiamate “i setti vizi capitali”. In essi c’è la ricerca esasperata dell’io che condiziona il soggetto in modo da renderlo schiavo, lasciandogli la convinzione di essere libero. Per peccato s’intende, allora, quella condizione che non consente all’uomo di essere autenticamente se stesso, di essere inconsciamente l’opposto. Bisogno di qualcuno che faccia capire questo all’uomo e, contemporaneamente, che qualcuno lo riscatti da tutto questo, da questa paternità distruttiva che fa leva sulle passioni del cuore, all’enigmatica tendenza dell’io a fare le cose per sé, a partire da sé, a sentirsi l’unico soggetto, a considerarsi l’assoluto e quindi a ottenere come esito ultimo la morte nella superbia, avarizia, lussuria ira, accidia gola, invidia, nelle passioni fondamentali. In tutto questo l’uomo è reso somigliante a Satana senza che se ne accorga, mentre, per orgoglio, afferma di fare quello che vuole e impedisce ad altri, a Dio stesso, di suggerirgli ciò che deve fare. La stessa legge diventa impotente.
Ci si muove veramente nel rapporto tra verità e libertà. Dove sta la verità dell’esistere dell’uomo? Dove è destinato a essere sempre? L’uomo ha la possibilità di essere se stesso, di stare dove egli è effettivamente nella verità? Lo può nell’esperienza della figliolanza con Dio Padre.
La sensazione qui è che il termine “libertà” sia relativo e non assoluto. È il modularsi dell’uomo alla verità di se stesso. È il sintonizzarsi con Dio e operare di conseguenza in maniera autodeterminata. Questa è la libertà. Non è il fare quello che si vuole, ma il volere ciò che è vero con la propria intelligenza, volontà, capacità di decidere, perché Dio non obbliga e nello stesso tempo chiama a partire da una realtà che ha già donato.
Alla domanda che fa Pilato nel vangelo di Giovanni: «Tu sei re?», Gesù risponde confermando che è re, è nato e venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità. Chi è nella verità ascolta la sua voce. Per capire in che senso Gesù è re bisogna chiamare in causa la verità ed anche per capire la verità bisogna chiamare in causa la sua regalità. Ma in che senso questa regalità chiama in causa la verità? Regalità significa che c’è un re che esercita il suo potere, è capace di custodire e difendere il suo popolo, di vincere anche contro i nemici. L’idea di regalità è quella di una potenza vittoriosa. Allora la verità è da intendersi nello stesso modo, non è una verità puramente filosofica, non è una dottrina. In Giovanni 14, 6 Gesù dice: «Io sono la via, la verità e la vita.» Lui è la verità. Se la verità ci farà liberi, significa che lo farà Lui. Lui dice: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Che significa “conoscere la verità?” Se essa fosse una dottrina, avrebbe significato lo studiarla; ma se non fosse una dottrina? Se la verità è la persona di Gesù, conoscere la verità non significa studiarla sui libri, ma accostare Gesù, creare un rapporto con Lui, ponendosi in suo ascolto, condividendo un’esperienza di vita con Lui come succede in ogni rapporto umano. Oggi noi possiamo accostare Gesù come ci accostiamo gli uni gli altri. La parola “verità”, dal greco andrebbe tradotta precisamente con il termine “rivelazione”. La frase andrebbe quindi tradotta cosi: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la rivelazione e questa rivelazione vi farà liberi». L’idea è quella di un segreto che viene comunicato, ma che ha in sé una potenzialità propria. Non è solo un far sapere, ma un comunicare, ove il soggetto è il Figlio. È un rivelare che è anche comunicare; il comunicare che il Figlio fa di se stesso agli uomini; ecco perché si parla di paternità, di paternità dignitosa che produce alle persone l’effetto di essere libere. La nostra libertà dipenderà dall’esperienza che facciamo della paternità di Dio e questa esperienza della paternità di Dio sarà possibile proprio attraverso quella rivelazione di essere figlio che Gesù ci dona. Condividendola, l’uomo ritrova se stesso e, lasciandosi ispirare da questa rivelazione che è in lui, che, essendo rivelazione regale, ha una propria potenza vittoriosa e rigenerante, l’uomo sarà portato ad agire conformemente al suo essere, in linea con quella comunione guadagnata del Figlio, con quella conoscenza del Padre, che poi gli impedirà di agire secondo le sue passioni e lo porterà a vivere pienamente e autenticamente puntando sulle relazioni, non più vivendo su di sé e auto-esaltandosi, ma aprendosi, dando piena espressione all’origine stessa del suo essere, del suo provenire da Dio. Saprà incontrare Dio, l’altro, le cose; tutto questo sarà compiuto a partire da ciò che è autentico in lui, che rimanda a quell’origine da cui proviene.
Questa verità è da intendersi come il comunicarsi del Figlio, che ha una potenza rigenerante, che riscatta l’uomo dalle illusorie pretese dell’affermazione dell’io che portano l’uomo all’annientamento di sé, mentre lo convincono del contrario.

Conclusioni:
  • Alla domanda: «Che cosa significa essere liberi?» si risponde che liberi si diventa.
  • Ci si può illudere di essere liberi; in realtà non lo si è affatto.
  • C’è un modo di agire, spesso inconsapevolmente distruttivo che si configura come l’assecondare le proprie passioni in vista di una presunta propria libertà e nella ricerca di una illusoria esperienza di vita. Cioè non è sufficiente dire: ” poiché io decido questo, dimostro di essere libero”; perché se quanto compio è una ricerca esasperata del mio io per assecondare le mie passioni, in questo modo io, pur partendo dalla mia libertà, mi dimostro schiavo.
  • Si aggiunge a questo quello che noi, con un termine non suo, abbiamo chiamato la “tentazione”. La tentazione fa parte dell’uomo così com’è. “Il demonio è menzognero fin dall’inizio”, cioè da quando l’uomo è quello che abbiamo conosciuto; esiste l’illusione di trovare la vita, mentre, in realtà, si va verso la morte. Il segreto del demonio è suscitare il desiderio; nella Genesi il demonio suscita il desiderio del frutto proibito: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?» Il desiderio è la tensione fortissima di mangiare dell’albero proibito; “sarete come Dio; si accorsero di essere nudi”.

Ci sono altri testi che trattano l’argomento verità e libertà, ma quello che abbiamo scelto colpisce per l’illusione della libertà, per la serietà del peccato. Il peccato rimanda alle passioni che portano al desiderio di glorificare se stessi per poi trasformarsi in una sorta d’isolamento totale in cui si vede solo il proprio io. Ancora: per evitare questo pericolo occorre lasciarsi raggiungere dalla rivelazione del Figlio entrando in sintonia con Lui. La potenza della manifestazione di bene di Dio si è svelata nella morte e risurrezione di Gesù. Si è svelata nel lasciarsi trafiggere di Gesù in mezzo a noi, in quel corpo da cui sono usciti quel sangue e quell’acqua. Quel corpo trafitto ha dietro un cuore, un’intenzione di amore nei confronti dell’umanità che ha svelato la paternità di Dio verso tutti gli uomini e che consente loro di ritrovarsi. Non si tratta di convincere teoricamente, ma di far percepire a una persona attraverso tutte le sue facoltà, non solo con passaggi razionali, la verità di quello che Lui è, il suo amore originario.
Questa paternità di Dio, rigenera l’uomo dalle sue passioni, lo guarisce e lo porta a desiderare, prima ancora di fare, ciò che è secondo Dio. In questo modo l’uomo si ritrova sempre più libero, capace di fare con convinzione secondo la verità di se stesso.
La verità per Gesù è l’attuarsi di ciò che è vero per l’uomo come una liberazione da parte di Dio.
L’uomo riceve questa continua rigenerazione, come grazia, tutto questo in dono nella realtà del Figlio, ma l’uomo deve consentire al dono di diventare realtà. Facendo questo l’uomo si accorge che la sua vita cambia e acquista la sua autenticità e si ritrova a non fare più ciò che prima non riusciva a non fare.
Al contrario chi, illudendosi di essere libero, fa scelte di schiavitù facendo il male. Crede di aver trovato la vita e invece sta morendo. Come si fa ad avvertire costui di quanto sta facendo? Non c’è altro modo che di offrirgli la liberazione. Fargli sentire la bellezza e la bontà di essere figlio di Dio in Cristo, offrirgli la testimonianza.
Verità, come comunicazione attraente che Dio fa all’uomo di se stesso cui è lasciata la libertà di acconsentire. Lasciar fare a Dio è la vera libertà che dà pienezza alla vera identità dell’uomo. Ascoltare la sua Parola potrebbe essere la forma per noi.